sabato 29 settembre 2012

Se la politica volesse salvarsi dovrebbe riportare parte del potere nelle mani dei cittadini

Quando le pubbliche malversazioni fanno come le ciliegie che una tira l’altra, il vento dell’antipolitica monta a forza di burrasca, il consenso nei confronti dei partiti tradizionali scende a minimi storici e capipopolo improvvisati riescono a intercettare legittime aspirazioni di cambiamento che non trovano soddisfazione nelle minestre riscaldate che vengono propinate da ex mostri sacri senza più un’idea che sia una nelle loro teste frastornate, ebbene, quando succede tutto questo, la Politica vera, laddove ne esistesse una, dovrebbe porsi alcune domande. La prima delle quali potrebbe essere questa: abbiamo forse tradito il patto che ci legava agli elettori, ci siamo forse allargati un po’ troppo, abbiamo invaso ambiti che non ci sono propri e abbiamo magari fatto tutto questo con una tracotanza che non poteva, un giorno , non rivolgersi contro di noi come un boomerang ?

Sarà forse perché chi ha un martello vede chiodi dappertutto ma quando lo studioso di organizzazione guarda la politica di oggi questa non può non sembrargli come il letto di un fachiro. E nessuno in giro a tentare di ribattere almeno qualche chiodo. Quali consigli, da non addetti ai lavori s’intende, dare dunque ad una Politica che, disponendo ancora – per pura ipotesi – di un residuo istinto di sopravvivenza volesse, pur di misura, evitare il baratro che ha di fronte? Mi limiterei a tre banali considerazioni, chiarissime all’uomo della strada ma incomprensibilmente oscure ai professionisti della politica.

Riportare almeno parte del potere nelle mani dei cittadini. E’ molto difficile presso le persone comuni, come siamo tutti noi, accreditare l’idea che le decisioni che riguardano le condizioni di impiego di quei particolari servitori pro-tempore dello Stato quali sono (o dovrebbero essere) i politici quando ricevono un incarico ufficiale – dallo stipendio, ai rimborsi spese, ai benefit, alla pensione, ai posti disponibili in Parlamento e varie assemblee, alle auto blu e via enumerando – siano prese dagli stessi sui quali ricadranno i benefici delle stesse decisioni. In questo caso è veramente molto ingenuo lamentarsi del fatto che lorsignori antepongano i propri interessi a quelli degli altri cittadini. Si potrebbe dire che non è loro la colpa di un simile comportamento, assolutamente prevedibile per chi abbia un minimo di conoscenza della natura umana ma, se una colpa c’è, questa è da ascriversi solo ed unicamente al cosiddetto popolo sovrano che ha evidentemente e da molto tempo deciso di rinunciare alla sua presunta sovranità mettendo la volpe a guardia del pollaio. Anche se la politica non è solo organizzazione essa è anche organizzazione e aver trascurato in passato questo aspetto puramente organizzativo – non aver pensato cioè che le regole influenzano in modo determinante il gioco – ha creato le condizioni per danni e sprechi immani che tutti noi siamo tenuti ora a pagare.

In una qualsiasi azienda i benefit degli operai vengono decisi non dagli operai ma dai dirigenti e quelli dei dirigenti dalla proprietà. Non ci sarebbe dunque nulla di strano e sarebbe altamente salutare che, nella politica, a stabilire i benefit dei politici non fossero loro stessi ma apposite commissioni di cittadini comuni (se l’espressione popolo sovrano ha un qualche fondamento, non sono forse questi, cioè i cittadini, la «proprietà»?). Coraggio, aspiranti leader in cerca di consenso, non sono questi tempi in cui farsi guidare dalla paura e dalla mancanza di immaginazione !

Accettare l’idea blasfema che decidere la regola delle regole, cioè chi deve governare, non è materia da politici. I sistemi elettorali hanno questo di sbagliato, che ognuno viene sponsorizzato dalla forza politica che ne trae il maggior vantaggio. Si tratta di un gioco sporco fin dall’inizio che i politici dovrebbero avere l’intelligenza di abbandonare. Il sistema elettorale organizzativamente migliore – quello cioè che guarda al Paese e non agli interessi di questo o di quello e conseguentemente che fa meno danni di tutti gli altri – è quello studiato da puri scienziati dei sistemi costituzionali privi di qualsiasi interesse di parte che funzionano alla stregua di arbitri di una competizione alla quale né devono né possono prendere parte. Non c’è nessuno sport dove l’atleta mette il becco nel regolamento di gara, stabilito invece da altri che sono fuori dal gioco. Cari politici , fate qualcosa di analogo e la fiducia, che vi siete giocati, magari ritornerà.

Smetterla, una volta per tutte, con l’occupazione manu militari di tutto l’occupabile. La politica diventa cattiva politica quando abbandona la missione che le è propria – scegliere qual è  il tipo di società nella quale si vuole vivere – e occupa ambiti che non le appartengono come la gestione, l’amministrazione, l’economia. Quando la politica “mette” un certo direttore generale in un certo posto non perché costui realizzi la missione dell’ente che governa ma perché risponda e assicuri vantaggi a chi ha facilitato la nomina – un fatto normale oggi, che non fa più notizia – ebbene gli sprechi generati, non solo economici ma anche e soprattutto umani, sono enormi. Domanda: esiste un qualche fondato motivo, una ragionevole preoccupazione democratica che possa giustificare l’occupazione progressiva che la politica ha condotto in Italia finendo con il condizionare aspetti della vita di tutti noi circa i quali non ha mai ricevuto alcuna delega?

Prendiamo il caso della burocrazia. Nessuno ne contesta la necessità, bisogna pur amministrare il funzionamento della società. Ma il passo tra necessità amministrativa e metastasi burocratica che tutto soffoca è molto breve ed è ciò che stiamo sperimentando da qualche decennio. Se il compito di amministrare la società venisse affidato sulla base di obbiettivi, responsabilità, controllo e merito, come è regola negli ambienti aziendali tanto disprezzati da una certa cultura italiana  e la politica mollasse la sua presa mortale su ciò che non le è proprio per dedicarsi meglio a ciò che dovrebbe fare – e non fa – potremmo sciogliere la metastasi con enormi vantaggi per la libertà di intraprendere e per i suoi vincoli che oggi la rendono così difficile e in casi sempre più numerosi del tutto antieconomica. E tutto questo non solo nel campo dell’industria ma anche in quello della piccola impresa e delle professioni.

Non credo che gli italiani siano sufficientemente consapevoli di quale gigantesca sottrazione di libertà – ogni euro di tasse pagate in più per coprire sprechi ingiustificabili è un esproprio  di libertà – sia  stata perpetrata ai loro danni negli ultimi quaranta anni sotto la bandiera ipocrita dei diritti e del progresso (oh sì, certo, qualcuno un bel progresso l’ha fatto di sicuro ma oggi sappiamo bene  chi è che ha sbancato il lotto), forse perché è avvenuta un passetto dopo l’altro, in modo indolore. Un nuovo consenso politico è disponibile, ci sono tutti i segni, per chi sarà capace di facilitare la restituzione della libertà espropriata a coloro cui appartiene per diritto naturale. C’è qualcuno che lo capisce ?

di Peppe Caglini
Fonte:Tiscali.it

venerdì 28 settembre 2012

Due o tre cosucce sul caso del martire Sallusti. E perché non è il caso di piangere

Va bene, pare che tutto il mondo “intellettuale” italiano, con tutto il milieu giornalistico in prima fila, compatto e granitico, sia in grandi ambasce per il rischio che Alessandro Sallusti, oggi direttore de Il Giornale e al tempo dei fatti di Libero, finisca in galera a seguito di una condanna per diffamazione. E’ confortante assistere a una così poderosa levata di scudi contro la restrizione della libertà personale, e dispiace semmai che tanta compattezza non si veda in altre occasioni. Tanta gente va in galera per leggi assurde e ingiuste – come circa tremila persone accusate del bizzarro reato di “clandestinità” – eppure la notizia è Sallusti. Bene, allora vediamola bene, questa notizia, al di là delle sentenze, delle polemiche, dei meccanismi della giustizia. Proviamo insomma ad applicare il vecchio caro concetto del “vero o falso?”
sallusti-alessandro Il fatto. Nel febbraio del 2007 una ragazzina di Torino (13 anni) si accorge di essere incinta. I genitori sono separati. La ragazzina (che tra l’altro ha problemi di alcol ed ecstasy) vuole abortire, ha il consenso della madre, ma non vorrebbe dirlo al padre (i genitori sono separati). Per questo si rivolge alla magistratura. E’ quanto prevede la legge: mancando il consenso del padre si è dovuto chiedere a un giudice tutelare, che ha dato alla ragazzina (e alla madre, ovviamente) il permesso di prendere una decisione in totale autonomia. Come del resto precisato in seguito, a polemica scoppiata, da una nota dettata alle agenzie dal Tribunale di Torino: “Non c’è stata alcuna imposizione da parte della magistratura”.
L’articolo querelato. Strano che, in tutto il bailamme suscitato dal rischio che Sallusti finisca in carcere, nessuno si sia preso la briga di ripubblicare l’articolo incriminato. Anche in rete si fatica a trovare la versione completa, anche se basta scartabellare un po’ nella rassegna stampa della Camera dei Deputati per trovarlo (andate qui e leggetevelo: http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pa…). L’articolo (Libero, 18 febbraio 2007) è firmato con lo pseudonimo di Dreyfus (quando si dice la modestia) e racconta la vicenda in altri termini. La prosa maleodorante e vergognosa – un cocktail di mistica ultracattolica e retorica fascista – non è suscettibile di querela e quindi ognuno la valuti come vuole. Ma veniamo ai fatti. La vulgata corrente di questi giorni insiste molto su una frase, questa:
“… ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo e il giudice” È vero. Si tratta di un’opinione. Scema, ma un’opinione. Disgustosa, ma un’opinione. Vediamo invece le frasi che non contengono opinioni ma fatti. Falsi. Il titolo, per esempio: “Il giudice ordina l’aborto / La legge più forte della vita”. Falso. Nessun giudice ha ordinato di abortire. Altra frase: “Un magistrato allora ha ascoltato le parti in causa e ha applicato il diritto – il diritto! – decretando l’aborto coattivo”. Falso. Il giudice ha dato libertà di scelta alla ragazzina e alla madre. Ancora: “Si sentiva mamma. Era una mamma. Niente. Kaput. Per ordine di padre, madre, medico e giudice, per una volta alleati e concordi”. Falso. Il padre non sapeva (proprio per questo ci si è rivolti al giudice) e le firme del consenso all’aborto sono due, quella della figlia e quella della madre. E poi: “Che la medicina e la magistratura siano complici ci lascia sgomenti”. Falso. Complici di cosa? Di aver lasciato libera decisione alla ragazza e a sua madre? Ora, sarebbe bello chiedere lumi anche a Dreyfus, l’autore dell’articolo. Si dice (illazione giornalistica) che si tratti di Renato Farina, il famoso agente Betulla stipendiato dai Servizi Segreti che – radiato dall’Ordine dei Giornalisti – non avrebbe nemmeno potuto scrivere su un giornale il suo pezzo pieno di falsità. Non c’è dubbio che il caso della ragazzina torinese sia servito al misterioso Dreyfus, a Libero e al suo direttore Sallusti per soffiare quel vento mefitico di scandalo che preme costantemente per restringere le maglie della legge 194, per attaccare un diritto acquisito, per gettare fango in un ingranaggio già delicatissimo. Ma questo è, diciamo così, lo sporco lavoro della malafede, non condannabile per legge. Condannabile per legge è, invece, scrivere e stampare notizie false. Di questo si sta parlando (anzi, purtroppo non se ne sta parlando), mentre si blatera di “reato d’opinione”. Il reato d’opinione non c’entra niente. C’entra, invece, e molto, un giornalismo sciatto, fatto male, truffaldino, che dà notizie false per sostenere una sua tesi. Per questo la galera vi sembra troppo? Può essere. Ma per favore, ci vengano risparmiati ulteriori piagnistei sul povero giornalista Sallusti che non può dire la sua. PS) Un mio vecchio maestro di giornalismo, all’Unità (sono passati secoli, ma io gli voglio ancora bene), scrutava i pezzi scritti da noi ragazzini con maniacale attenzione. Quando trovava qualcosa di querelabile ci chiamava e ci diceva: “Vuoi che ci portino via le rotative? Vuoi che ci facciano chiudere il giornale dei lavoratori?”. Nel fondo di oggi su Il Giornale, Sallusti lamenta con toni da dissidente minacciato di Gulag, che non intende trattare per il ritiro della querela, che ha già pagato 30.000 euro e non vuole pagarne altri 30.000. Spiccioli. Ecco. Forse “portargli via le rotative”, come diceva il mio vecchio compagno sarebbe meglio. Meglio anche della galera. Di molte cose abbiamo bisogno, ma non di un martire della libertà con la faccia di Sallusti.
Alessandro Robecchi
fonte:blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it

martedì 25 settembre 2012

dopo er Batman, le ostriche e i fondi neri, il PDL Lazio volta pagina....o quasi...

Un bel volto nuovo, la giovane Chiara Colosimo, prende il posto di Battistoni che prese il posto di Batman Fiorito come capogruppo del PDL nel consiglio regionale del Lazio.
Una ventata di aria fresca? 
Certo, ma la giovane ex-cubista del Gilda club di Roma come è ha fatto nel giro di pochi anni a passare dai cubi delle discoteche alle poltrine del consiglio regionale?

La ragazza in verità non è proprio un anonima giovincella romana, ma è la figlia di Paolo Colosimo, l'avvocato del senatore Di Girolamo, entrambi finiti recentemente in carcere con l'accusa di associazione per delinquere transnazionale pluriaggravata, minaccia per impedire l’esercizio del diritto di voto aggravata dal metodo mafioso e scambio elettorale aggravato da metodo mafioso.

Gli auguri di una brillante carriera politica per la figliola Chiara, sempre che anche lei non finisca come il padre e i suoi colleghi, in una cella del carcere di Regina Coeli!
Fonte:odiolacasta.blogspot.it

mercoledì 19 settembre 2012

Scandalo Regione Lazio, anche Renata Polverini al toga party


Le foto della festa di De Romanis con la Polverini
  • Le foto della festa di De Romanis con la Polverini
  • Le foto della festa di De Romanis con la Polverini
  • Le foto della festa di De Romanis con la Polverini
  • Le foto della festa di De Romanis con la Polverini
  • Le foto della festa di De Romanis con la Polverini
  • Le foto della festa di De Romanis con la Polverini
Carlo De Romanis due anni fa, appena eletto consigliere regionale, decise di indire una festa al Circolo del tennis del Foro Italico, perché finalmente poteva ritornare a casa, dopo aver passato molto tempo a Strasburgo, come assistente di Tajani alla Ue. Adesso sono spuntate le foto relative all’evento, che mostrano tutto il fasto a cui si è fatto ricorso in quell’occasione. Le foto mostrano anche che alla festa partecipò Renata Polverini, la quale, a quanto pare, si limitò però a passare per un saluto, indossando dei pantaloni lunghi, scuri e un soprabito. Eppure in conferenza stampa la Polverini si era mostrata irreprensibile e adesso si scopre che aveva partecipato al toga party.
E così che sono stati spesi i soldi del Lazio? In feste di vario genere a vantaggio dei politici? Si tratta di un vero e proprio spreco di soldi pubblici, che fa rabbrividire, considerando soprattutto la crisi economica che sta attraversando il nostro Paese.
Diventano ancora più inquietanti quindi i dati che emergono dall’inchiesta della Procura della Repubblica di Roma sull’ex capogruppo del Popolo della Libertà Franco Fiorito, che ha finalmente posto l’attenzione mediatica sugli sprechi della Giunta del Lazio e in generale sugli eccessivi ed esorbitanti costi della politica in tutte le Regioni e Province italiane.
Nel tritacarne delle polemiche è finita anche la Governatrice Renata Polverini che nel corso del Consiglio straordinario di lunedì 17 settembre si è scusata con tutti i cittadini del Lazio e si è dichiarata estranea ai fatti che hanno visto protagonista il suo consigliere Franco Fiorito, che è indagato per peculato per via della gestione dei fondi attribuiti al gruppo PdL. Soldi pubblici utilizzati per scopi e fini personali così come è successo nel recente passato a Lusi, Bossi e altri illustri personaggi della casta.
Le spese folli della Giunta Polverini farebbero rabbrividire qualsiasi cittadino. Quali sono le spese? Ma soprattutto cosa ne hanno fatto? A cosa sono servite? La consigliera regionale del Popolo della Libertà nonché presidente della Commissione cultura, spettacolo e sport della Regione Lazio Veronica Cappellaro ha sprecato mille euro dei fondi del suo partito per farsi un book fotografico in uno studio del centro della Capitale. Una scelta nobile e sicuramente di buon gusto! E la Polverini? Anche lei ha assunto un fotografo, Edmondo Zanini, che costa alla Regione Lazio ben 75mila euro all’anno! Questa assunzione della Giunta Polverini scatenò un bel po’ di polemiche.
Dall’ottobre 2011 Gabriella Peluso guida la “Verifica dell’attuazione delle politiche regionali e del programma di governo” con un contratto da dirigente da 122mila euro all’anno! E i costi faraonici per i vitalizi degli assessori esterni (14) fortemente voluti dallo staff della Polverini? I contribuenti sborseranno la bellezza di un milione lordo l’anno per circa un trentennio! Se invece gli assessori fossero interni, si risparmierebbe oltre un milione di euro. Ma si sa l’Italia è in crisi perenne per la classe politica che sperpera denaro pubblico per la casta e poi flagella i cittadini con tasse e imposte salatissime. La Giunta della Regione Lazio costa 5 milioni di euro all’anno senza tener conto della pensione. Per di più ogni ogni assessore ha diritto a uno staff di dieci persone anche se in alcuni casi (Gabriella Sentinelli, assessore all’Istruzione) si tocca anche quota 17! Le costosissime auto blu in Regione sono 68 e crescono giorno per giorno le società regionali che hanno al loro interno ben 1.300 dipendenti.
Renata Polverini ha chiesto pulizia all’interno del partito, ma forse dovrebbe essere proprio lei a fare il primo passo indietro. Ha annunciato che lunedì saranno pubblicati online i conti della sua lista, ma il consigliere regionale del Partito Radicale Rocco Berardo ha spiegato che lo scandalo non riguarda solamente cene, fatture false e rimborsi ma anche le assurde e gigantesche spese strutturali che da anni non vengono razionalizzate oltre a tante altre spese faroniche e per lo più inutili. Fare politica in questo modo è davvero ripugnante soprattutto perché si sperpera denaro pubblico per i soliti privilegiati della casta senza pensare ai reali problemi dei cittadini che oggi come oggi non riescono ad arrivare a fine mese e hanno perso il lavoro per colpa della crisi economica e di leggi sbagliate. Quando finirà questo spreco di denaro pubblico?
Fonte:Politica24.it

lunedì 17 settembre 2012

La Cassazione: "Non c'è obbligo di registrazione al Tribunale per i blog e i notiziari web"


La Cassazione: "Non c'è obbligo di registrazione al Tribunale per i blog e i notiziari web"


Dovranno iscriversi come testata giornalistica solo se intendono chiedere il finanziamento pubblico.Sentenza storica: Ruta, condannato in primo grado
e in appello per il reato di stampa clandestina, assolto con formula piena

Per i notiziari web e per i blog diffusi su internet non c'è alcun obbligo di registrazione al Tribunale come testata giornalistica: ciò è necessario solo se intendono chiedere il finanziamento pubblico previsto dalla legge sull'editoria. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza di assoluzione del giornalista e saggista Carlo Ruta, autore di un blog che era stato condannato per il reato di stampa clandestina. Il punto è chiarito dalla motivazione della sentenza, appena pubblicata. 
Nel 2008 e poi nel 2011, in appello, la condanna di Ruta aveva suscitato apprensione e proteste nel mondo del web. La questione è stata ora chiarita in senso generale, perché la sentenza con la quale la III Sezione penale della Corte di Cassazione , il 10 maggio 2012,ha assolto con formula piena «il fatto non sussiste» il saggista Carlo Ruta, farà giurisprudenza.

Questi i punti essenziali. La Corte ha definito il blog «Accadde in Sicilia» un «giornale telematico di informazione civile» e ha aggiunto che esso «non rispecchia le due condizioni ritenute essenziali ai fini della sussistenza del prodotto stampa come definito dall’art. 1 L. 47/1948 (Legge sulla stampa, ndr), in quanto per esserlo dovrebbero esserci i seguenti requisiti: «un’attività di riproduzione tipografica; la destinazione alla pubblicazione del risultato di tale attività».
 
Carlo Ruta ha sottolineato il valore generale della sentenza che, a suo avviso,«susciterà sconcerto negli ambienti che mirano a limitare la libertà sul web, perché è difficile che ne sfuggano le implicazioni e il valore democratico che spero si traducano in una legge».

L’avvocato Giuseppe Arnone, che ha assistito Ruta, ha commentato: «Questa sentenza, motivata con chiarezza ed essenzialità, è un fatto di portata straordinaria. Abbiamo ottenuto un risultato enorme per la libertà d’informazione, che è un cardine della democrazia. Ora siamo più liberi e internet è riconosciuto come strumento fondamentale per un esercizio maturo dei diritti d’informazione e di espressione». 

Fonte lastampa.it

mercoledì 12 settembre 2012

LA STESSA AZIENDA CHE L'11 SETTEMBRE DIEDE VITA AL GOLPE IN CILE


 
  Parliamo dell’Alcoa e di Portovesme in Sardegna.
Di conseguenza, parliamo di scelte strategiche militari e di investimenti di speculazione finanziaria sui derivati nelle commodities del settore minerario.
Quella che si sta combattendo in Sardegna è guerra vera, ma non lo dicono.
Quando parlo di “guerra vera” intendo dire carri armati, bombardieri, ecc.
E di un flusso di cassa permanente di soldi per la criminalità organizzata.
Una brevissima pausa tanto per ricordare quel martedì atroce dell’11 settembre.
Non quello delle torri gemelle nel 2001.
Bensì quello del 1973, quando la Alcoa, la Enron, la ITT e la Citicorp diedero il via definitivo ai fascisti cileni per impossessarsi del potere in Sudamerica con la violenza
Avevano bisogno del controllo economico e finanziario di tutta la produzione estrattiva delle miniere di rame in Cile, del controllo della produzione di alluminio, carbone e zinco nella zona tra Il Cile, il Perù, l’Uruguay e il Paraguay. Fu quella la ragione e il motivo.
39 anni dopo la Alcoa sta di nuovo in prima fila nella gestione del riassestamento strategico delle sue aziende.
L’ufficio operativo marketing europeo nacque e si costituì a Milano, nel 1967, e da lì, grazie all’appoggio dei ceti più conservatori della politica italiana, iniziarono a tessere le fila per il golpe in Sudamerica nei primi anni’70, come tonnellate di documenti hanno ampiamente provato da decenni.
Ho ritenuto opportuno, oggi, quindi, spiegare chi sia la Alcoa.
Chi la dirige, chi la gestisce. Chi c’è dietro.
Per comprendere che non si tratta di una “normale” battaglia sindacale.
Si tratta del nuovo scenario dell’oligarchia finanziaria planetaria da applicare all’Azienda Italia per affossare definitivamente il paese.
Dietro l’Alcoa c’è la Citicorp che ne gestisce la finanza in un fondo creativo il cui management operativo è affidato al nucleo di Black Rock Investment, garantito da Royal Bank of Scotland e amministrato, in ultima istanza, dal quartiere generale di Goldman Sachs (è tutta robbetta ricavata da files pubblici gentilmente offerti nel 2010 e nel 2011 dalla ditta wikileaks di Julian Assange) che in questo 2012 sovrintendono, gestiscono e stabiliscono gli investimenti produttivi nel settore energetico nel pianeta.
Ecuador, Bolivia, Uruguay, Islanda, Australia, Spagna, Italia.
Queste sono le nazioni “strategicamente” più interessanti per Alcoa negli ultimi 10 anni.
Queste sono le nazioni nelle quali, nell’ultimo triennio, Alcoa ha avuto dei seri guai (oltre che perdere ingenti profitti ai quali erano abituati).
Nelle prime quattro nazioni il problema è stato risolto dai governi locali e vi spiegherò come. In Australia è stato affrontato e risolto dal Commonwealth in 36 ore tra il 28 e il 29 giugno del 2012, evitando una pericolosa crisi politica britannica venti giorni prima dell’inizio delle olimpiadi. In Spagna e in Italia (considerate ormai in tutto il mondo le due nazioni più conservatrici, più arrese, più arretrate dal punto di vista politico, completamente commissariate dai colossi finanziari) è stata scelta la linea colonialista, sapendo che in Italia e Spagna, in questo momento, è possibile fare tutto ciò che si vuole perché non esiste nessuna opposizione reale, avendo cancellato l’esercizio dell’informazione giornalistica.

Nessuno spiega chi è Alcoa, che cosa fanno, che cosa vogliono da noi, e perché se ne vanno via, dove, come, a fare che.
La prima botta per Alcoa è venuta dall’Islanda.
I guai per Alcoa (si fa per dire) iniziano in Islanda, agli inizi del 2007, quando un esponente del partito socialista islandese, membro della commissione salute e sanità del parlamento islandese, Helgi Hjorvar, fa una interpellanza parlamentare contro Alcoa sostenendo che “sta ottenendo sovvenzioni statali grazie alle quali ha assunto il totale controllo dell’erogazione di energia elettrica nella nostra isola praticando un prezzo ai consumatori dell’850% superiore a quelli di mercato e a quelli praticati in altre nazioni”. Da lì nasce una tremenda querelle che porterà poi Alcoa, prima a scusarsi, poi a patteggiare e infine, travolta dallo scandalo di corruzione delle multinazionali emerso in seguito al default islandese, a pagare un dazio e poi scappare via.
Ma pochi mesi dopo, alla fine del 2008 arriva la botta dell’Ecuador. Il nuovo governo di Rafael Correa fa arrestare l’intero management di Petroecuador attaccando per corruzione internazionale la società svizzera Glencore, sì proprio quella che la cupola mediatica italiana sostiene oggi sui media blaterando “c’è un cliente interessato all’acquisto”, è proprio quella che –toh guarda caso- è però la stessa azienda; perché, attraverso incroci azionari, rispondono entrambe all’interesse della Citicorp di New York. Fernando Villavicencio, esperto sudamericano a Quito di analisi finanziarie, rivela come e perché l’azienda locale di Alcoa e Glencore, a Quito, sia stata nazionalizzata e l’azienda buttata fuori dal marketing operativo. Il tutto dopo che in data 9 Febbraio 2007, in Bolivia, il presidente Evo Morales aveva dichiarato “insostenibile” il monopolio di Glencore e Alcoa nel settore argento, oro, zinco, alluminio attraverso la “Empresa metalurgica Vinto” nella regione di Oruro e la Sinchi Wayra (capitale finanziario Deutsche Bank e Citicorp) grazie alla corruttela dei precedenti governi, i cui esponenti sono finiti in galera. Nella stessa data, il parlamento boliviano vara un decreto legge in virtù del quale confisca le aziende di Alcoa e Glencore senza alcun indennizzo, nazionalizza le dodici aziende minerarie, e le espelle entrambe dal paese vietandone l’accesso al mercato. Da notare che il presidente della Glencore (uno degli uomini più ricchi al mondo) Marc Rich, è stato indagato in Usa per truffa, aggiotaggio, riciclaggio, sottoposto ad auditing davanti al Senato Usa nel febbraio del 2001 in diretta televisiva, processo concluso in maniera negativa sia per Rich che per la Glencore che per la Alcoa, ritenute colpevoli. La sentenza definitiva venne stabilita per il successivo aprile. Ventiquattro ore prima della notifica, il presidente George Bush intervenne personalmente (potendolo legalmente fare) chiedendo, pretendendo e ottenendo un “perdono giuridico del Congresso” in quanto tali aziende erano costrette a non rivelare la “vera natura del proprio business operativo essendo coinvolte in attività di natura strategica militare coperte dal segreto di Stato”. Il presidente garantì per loro. Nel 2005 l’interpol fa arrestare l’intero management di Glencore, di Alcoa e di African United Mines company nella Repubblica del Congo per riciclaggio internazionale di capitali, aggiotaggio e associazione con membri della criminalità organizzata legata ai cartelli narcos colombiani. E’ tuttora aperta la vicenda nella Repubblica dello Zambia, nella regione di Mopani, dove, approfittando della corruzione dei governanti locali le miniere vengono gestite senza rispettare alcuna norma di sicurezza o di rispetto ambientale. Come l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rivelato in un documento ufficiale presentato a Ginevra da Greenpeace in data 2010, in Zambia, “nella zona prospiciente la regione di Mopani, cinque milioni di persone rischiano la vita in seguito a piogge acide, all’avvelenamento di tutta la falda acquifera dato che la popolazione beve acqua non sapendo che essa non è potabile perché contiene una percentuale di piombo e alluminio superiore del 6.000% al livello massimo di rischio: sono tutte condannate a morte”. L’inchiesta è ancora lì.

In Paraguay, il vescovo Lugo, in quanto presidente regolarmente eletto, in data marzo 2012 aveva annunciato che avrebbe confiscato le miniere di Glencore e di Alcoa nel giugno del 2012 dando loro la possibilità di iniziare un piano di disinvestimento progressivo. Un mese dopo c’è stato il suo defenestramento sostituito da un governo tecnico che ha abolito il decreto affidando alle due aziende il controllo delle miniere del paese.
E così nel 2012 la Alcoa stabilisce che il quadro internazionale sta cambiando e decide di “spostare strategicamente tutte le attività estrattive, produttive e commerciali dal Sudamerica, Europa e Australia nel libero territorio dell’Arabia Saudita” paese medioevale dove c’è la possibilità di avere a disposizione mano d’opera che lavora quasi gratuitamente. Secondo il management dell’Alcoa c’è la opportunità di concentrare tutta la produzione mondiale di minerali fossili in Arabia Saudita con un prezzo di produzione minimo in modo tale da poter avere il monopolio nel mondo. E quindi dettare legge.
In Spagna (dove si trova la più grande azienda in Europa) gli va di lusso. Attraverso le sue consociate finanziarie, il gruppo Citicorp possiede pacchetti azionari di Caixa Bank, Banco Santander, Bankia e Banco Hispanico e quindi controlla il sistema finanziario delle banche erogatrici di credito a tutto il comparto dell’indotto nella provincia dell’Andalusia. 50.000 famiglie finiscono tutte sul lastrico per la chiusura delle miniere, alle quali vanno aggiunte circa 2.000 micro aziende dipendenti, che porteranno la Andalusia a dichiarare default nell’agosto del 2012 chiedendo l’intervento dello stato centrale.
Ma è in Australia che gli va male, ragion per cui sceglie e opta per la chiusura in Italia.
Avviene tutto nel giugno del 2012 quando Alcoa decide di chiudere le miniere nel Queensland, licenziando 2.000 persone che coinvolgono altre 3.600 persone operative nell’indotto. E qui c’è la sorpresa, a dimostrazione che –quando esiste la volontà politica, l’informazione e l’intelligenza- c’è sempre una possibilità di uscita. La Alcoa comunica che chiude le sue miniere e si trasferisce in Sudafrica. 48 ore dopo, il gruppo wikileaks australiano di Julian Assange inonda la rete australiana con notizie, informazioni (e trascrizioni di conversazioni tra diplomatici americani, inglesi, arabo-sauditi, italiani) relative soprattutto all’attività di un tedesco considerato un grande genio, Klaus Kleinfeld, la mente dietro Alcoa, l’uomo la cui immagine vedete qui in bacheca. Nato nel 1957 si laurea a pieni voti nella prestigiosa università di Gottinga e poi prende anche un dottorato di ricerca nell’università di Wurzburg in “amministrazione gestionale di aziende multinazionali” e inizia presto la sua attività, prima come consulente finanziario per Goldman Sachs nei primissimi anni’80 e poi a Duisbrug, Wiesbaden e infine a Francoforte, come responsabile degli investimenti finanziari in Europa per conto del gigante statunitense Citicorp. A metà degli anni’90 entra in Alcoa diventando presidente dal 1996 al 2001, gestendo in prima persona “l’operazione Italia di Portovesme” (dal punto di vista finanziario) prima con l’accoppiata Romano Prodi/Massimo D’Alema nel 1996 e 1997 e poi con l’accoppiata Silvio Berlusconi/Ignazio La Russa nel 2001. Dopodichè viene inviato in Usa dove diventa amministratore delegato della Siemens tedesca, gigantesca multinazionale strategica in campo militare e delle telecomunicazioni. Ma in Germania iniziano le contestazioni contro di lui all’interno del mondo imprenditoriale per i suoi modi autoritari e per l’indecoroso trattamento degli impiegati e degli operai tedeschi nelle fabbriche tedesche. Per anni, Kleinfeld è al centro del mirino della stampa tedesca finché non finisce indagato, accusato di corruzione, abuso di potere e addirittura “atteggiamento autoritario e lesivo della dignità umana dei propri dipendenti” ed è costretto a dimettersi nel 2007, scomparendo nel nulla (ovvero, rientrando come consulente operativo finanziario dentro Citicorp).
Alcoa in Italia nasce nel 1967 a Milano quale ufficio di rappresentanza e commerciale per la gestione delle vendite di materiale di produzione statunitense ed europea alla clientela italiana e del Bacino Mediterraneo. Ma Kleinfeld gestisce, insieme a Citicorp e Goldman Sachs, l’acquisizione della ALUMIX (gruppo EFIM) di proprietà dell’Italia; un’operazione gestita da Prodi e D’Alema che consegnano nelle mani del consorzio Citicorp e Goldman Sachs un pezzo strategico fondamentale per la sovranità e l’indipendenza nazionale senza aver mai fornito dettagli sull’operazione. Alain Belda (personalmente scelto da George Bush, Dean Rumsfeld e Dick Cheney) nel 2001 diventa presidente della Alcoa e chiude un accordo con il governo italiano prima nel 2002 (Berlusconi/La Russa) poi di nuovo nel 2007 (Prodi/D’Alema) e infine il più succoso in assoluto quello del 2009 (Berlusconi/La Russa) che consente alla Alcoa di godere di sovvenzioni governative come “rimborso relativo all’uso dell’energia elettrica” per un totale di 2 miliardi di euro nel 2009, più 1 miliardo e mezzo nel 2010 che raggiungono i 4,5 miliardi di euro nel 2011, a condizione di “garantire l’occupazione permanente e il prosieguo dell’attività produttiva nel territorio sardo”. Quei soldi, in verità, sono finiti nella Citicorp, investiti nei derivati finanziari. Neanche lo vendono l’alluminio: lo producono, lo accatastano, lo immagazzinano e lo danno in garanzia per avere soldi da investire in derivati speculativi.
L’Italia è stata una pacchia per gli speculatori, soprattutto tra il 2007 e il 2011, perché attraverso la malleveria politica ogni multinazionale e grossa azienda –con scusanti varie- si è appropriata di ingenti risorse dello stato centrale (cioè i nostri soldi) per investirli poi a Londra, New York, Francoforte, Honk Kong.
Ma i profitti lucrati non sono mai rientrati in Italia.
Neppure un euro.
Come dicevo sopra, nel giugno del 2012 Alcoa decide di chiudere in Australia “rompendo” il consueto patto: mi dai sovvenzioni statali e io ti garantisco piena occupazione nel settore. Ma in Oceania, la manovra non passa. Fa da ariete Julian Assange (e wikileaks) da due giorni finito dentro l’ambasciata dell’Ecuador, e in Australia monta il dibattito su Alcoa. Perché sul web australiano, sui blogs e sulla stampa mainstream cominciano a comparire valanghe e fiumi di notizie sulla Alcoa, sulla Glencore e sulle loro attività finanziarie. Il primo ministro australiano interviene e risolve il tutto in tre giorni. Telefona alla regina Elisabetta e le dice “Maestà, se queste 4.000 famiglie verranno buttate in mezzo alla strada, riterrò politicamente responsabile la Corona d’Inghilterra e lei personalmente ne trarrà le conseguenze. Sulla base del nostro diritto io denuncio quindi la questione al Commonwealth, pretendendo un’aperta discussione anche all’interno del parlamento britannico a Londra”. Lo fa anche per iscritto. Invia una lettera a Elisabetta (bypassando David Cameron) ma la copia la invia anche ai responsabili del Partito Laburista Britannico (i partiti servono, eccome se servono; il problema non sono i partiti, in Italia, ma la qualità delle persone che li compongono, il che è un altro dire) i quali si incontrano con la regina e risolvono la questione in un semplice colloquio, peraltro informale. La Legge britannica obbliga la regina a non mettere bocca su quello che fa il suo primo ministro (a meno che lei non lo sfiduci) ma il primo ministro non si impiccia del Commonwealth che la Corona sovrintende (Canada, Australia, Bahamas, Bermudas, ecc.). Il ministro degli esteri inglesi viene avvertito e invitato a chiedere alla Merkel che intervenga; evento che si verifica. Kleinfeld viene raggiunto e viene chiuso un nuovo accordo. La Corona mette subito 40 milioni di sterline per pagare gli stipendi dei minatori per due mesi e nel frattempo garantisce che la Alcoa rimane lì e seguiterà a produrre, oppure, nel caso se ne voglia andare, restituisce i soldi che ha avuto e la Corona d’Inghilterra si fa garante, oltre a farsi carico della spesa di riconversione, assumendosi la responsabilità di avere a suo tempo dato il via all’operazione.
Trovate tutto il racconto sul sito (per gli amanti dei link) news.ninemsn.com.au

Perché non farlo anche in Italia?

L’Alcoa o rimane (e ringrazi il cielo) oppure deve restituire i soldi che ha avuto, li deve restituire subito, cash really cash, sufficienti a garantire la tenuta dell’occupazione e riconvertire con un abile piano industriale la zona rilanciando lavoro e occupazione. Si tratta di circa 8 miliardi di euro, praticamente una manovra economica.
Lo sapete che non esiste una fattura, un bilancio, una documentazione, una ricevuta di quei soldi?
Lo Stato italiano per anni ha dato i soldi dei contribuenti a un’azienda gestita da una pattuglia che rispondeva agli ordini di Dean Rumsfeld (ex ministro della Difesa Usa) uomo costretto alle dimissioni in Usa e scomparso nel nulla per pudore, e assiste passivo e silente dinanzi a ciò che sta accadendo?
Perché i sindacati non raccontano la storia vera di Alcoa?
Perché i sindacati non raccontano chi c’è e c’è stato dietro Alcoa?

Corrado Passera sostiene che c’è “un interesse” di Glencore. Ma questa è un’azienda finanziaria che si occupa di investimenti su derivati, l’uno è il braccio dell’altro: che cosa fanno? Un ufficio vende la propria azienda a un’altra stanza dello stesso ufficio?
Ci avete presi per deficienti cerebrolesi?

Il sole24 ore poi viaggia su un delirio da cupola mediatica: “c’è un forte interesse da parte di un’industria svizzera, la Klesh”.

Peccato che anche questa sia una società finanziaria della Citicorp, gestita da Goldman Sachs, già operativa dentro la Alcoa, ex socia di Halliburton, Enron e Pimco Pacific insieme al vice-presidente Usa Dick Cheney, gestita da un management “discutibile” dato che l’intero consiglio amministrativo è composto da individui indagati, denunciati, alcuni condannati per riciclaggio, aggiotaggio, violazione delle norme fiscali, retributive e associative, tra cui falso in bilancio, coinvolti in continui scandali finanziari.

In Sudamerica stanno cercando di liberarsi di questa gente. Quando e se possono, li sbattono fuori dal paese, o li mettono in galera.
In Australia, il governo è intervenuto subito coinvolgendo tutta la city di Londra, minacciando sfraceli. Ha ottenuto un risultato in 48 ore.
E in Italia?

I lavoratori della Alcoa hanno il sacrosanto diritto di combattere per la salvaguardia del loro posto di lavoro, che era stato garantito da accordi inter-governativi di tipo militare.

Ma hanno il dovere civico di chiedere ai sindacalisti “ragazzì….com’è sta storia della Alcoa?” e pretendere da loro che raccontino chi c’era dietro, quali accordi hanno stipulato, quali erano le garanzie reciproche, pretendere l’esibizione di tutta la regolare documentazione dello scambio tra Alcoa e governo, con nomi e cognomi, date e cifre. Se era legale, dovrebbe essere tutto documentato. Se non è documentato, allora vuol dire che non è legale e il Diritto consente di sequestrare gli impianti come si fa con la mafia.

Soprattutto pretendere che si sappia che cosa c’è dietro, oggi, adesso. Ora.

Nella Guerra Invisibile, la battaglia per il controllo delle risorse energetiche è fondamentale.

Gli operai sardi devono chiedere “Perché l’Alcoa chiude, adesso? Dove sono andati a finire i miliardi di euro che hanno ricevuto? Che cosa hanno dato in cambio?”

Ma soprattutto avere il coraggio civile, e civico, di chiedere “A chi hanno dato in cambio qualcosa? Quando? Come? Quanto?”.

Perché di questo si tratta.

Ecco il vero volto dell’attuale governo in carica: gestire e pilotare la crisi per spingere all’angolo della disperazione sociale chi lavora e poi presentarsi e dire: “o finite in mezzo alla strada oppure vi possiamo salvare vendendo questa azienda a Mr. Pinco Pallino perché noi siamo buoni” obbligando la gente (e le aziende) ad accogliere a braccia aperte Mr. Pinco Pallino senza sapere chi diavolo sia. Così entra la criminalità organizzata, e così penetrano le società finanziarie, il cui unico, dichiarato scopo, consiste nella de-industrializzazione delle nazioni.

Vogliamo sapere le condizioni di vendita all’Alcoa scritte nel 1996. Chi stabilì allora il prezzo? Quali parametri vennero usati e applicati?
Vogliamo sapere quali condizioni e postille e clausole c’erano negli accordi strategici sottoscritti dal governo nel 2001, nel 2007 e nel 2009.
Vogliamo sapere come sia possibile che l’Italia nel 1992 era tra le nazioni leader al mondo nella produzione di lingotti di alluminio e adesso è sparita dal mercato.
Coloro che hanno gestito queste manovre sono le stesse persone che oggi pretendono di guidare il presupposto cambiamento.
Stanno tutti in parlamento.
E voi vi fidate di gente così?

“Devono andare tutti alle isole Barbados”.

Sergio Di Cori Modigliani
Fonte: http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it

martedì 11 settembre 2012

Slot machines. E’ allarme sociale

Informazione - Illuminiamo le Coscienze


408.665 è il numero delle slot machine installate sul territorio italiano, circa una ogni 150 abitanti; senza considerare quelle installate illegalmente, la cui presenza è dimostrata dai 3.933 apparecchi
sequestrati dalla Guardia di Finanza nel 2011. 76,6 miliardi di euro è la raccolta per il gioco pubblico realizzata nel 2011, di cui 41,70 miliardi di euro derivante solo dalle slot machine (ben il 54,45 % del totale). 10 miliardi di euro sono le entrate erariali (stimate) derivanti dai giochi pubblici nel 2011.

Cifre davvero sbalorditive, se si considera che sul sito dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (Aams) il gioco delle slot machine è collocato nella sezione “apparecchi da intrattenimento”. Nella descrizione del gioco si legge:

“L’Amministrazione intende valorizzare il ruolo sociale del gioco, la voglia di divertirsi con serenità, moderazione e senso di responsabilità. Fissare le regole e, nel contempo, farle rispettare, significa educare al gioco valorizzandone la funzione di aggregazione sociale, di momento di creatività e di comunicazione tra gli individui.”

Verrebbe da dire: Ma a che gioco stiamo giocando?

La slot machine rapresenta a tutti gli effetti un gioco d’azzardo, in quanto ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è principalmente aleatoria; cominciamo a chiamare le cose con il proprio nome. A dir il vero, rappresenta un gioco d’azzardo sui generis, dato che l’esito del gioco è determinato da un software, concepito per non far perdere mai uno dei giocatori: lo Stato (restuisce in vincite il 75% delle giocate durate ogni ciclo di 140.000 partite).

Per definizione, un’attività di intrattenimento consente a colui o colei che l’esercita di trascorrere il tempo piacevolmente. Ora, tutto si può dire tranne che chi gioca ad una slot machine dia l’impressione di divertirsi, ne tantomeno di migliorare il proprio potenziale creativo e la propria capacità di comunicazione con gli altri. Anzi è esattamente 
il contrario!

La slot machine è un gioco solitario, passivo e, come tutti i giochi d’azzardo, può creare dipendenza. Il Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) è una malattia molto grave, potenzialmente mortale, con importanti ripercussioni sociali. Il giocatore compulsivo mette a rischio il rapporto con la propria famiglia, tende ad isolarsi dagli altri e a sviluppare un rapporto disfunzionale con il denaro; arrivando molte volte ad indebitarsi e a compiere attività illegali per finanziare l’attività del gioco.

Da un recente studio dell’Istituto di fisiologia clinica del CNR di Pisa, pubblicato su Springer Science, emerge chiaramente la drammaticità del problema del gioco d’azzardo in Italia.

“Il 42% della popolazione campionata nelle fasce di età 15-24 e 25-64 ha giocato somme di denaro almeno una volta nel corso degli ultimi 12 mesi. In proporzione, possiamo considerare circa 17 milioni di persone coinvolte dal gioco d’azzardo, una sorta di epidemia sociale che condiziona molte famiglie italiane ”,

spiega Sabrina Molinaro, coordinatrice della ricerca.

“Dichiara di aver giocato almeno una volta negli ultimi dodici mesi il 36% dei 15-24enni (equivalente a 2,2 milioni di giovani adulti), composto dal 27% di cosiddetti giocatori sociali e dal 9% di problematici, questi ultimi corrispondenti a 500 mila persone”.

Le istituzioni, private e pubbliche, cosa stanno facendo per tentare di arginare questo preoccupante fenomeno? Confindustria ha recentemente creato al suo interno una federazione con l’obiettivo di riunire tutta la filiera del settore.

“E’ un settore aciclico che quindi ha un enorme vantaggio di poter  impostare politiche di sostegno e di sviluppo delle proprie dinamiche indipendentemente da quali sono le situazioni, appunto, di crisi di carattere generale. E’ un vantaggio che bisogna saper sfruttare. Lo sviluppo c’è stato, evidentemente è stato uno sviluppo importante che ha portato a numeri importanti. Per il prossimo futuro io credo sia necessario mettersi attorno ad un tavolo ed operare affinchè questo sviluppo venga consolidato.”

E’ la dichiarazione rilasciata ai microfoni di Adnkronos da Massimo Passamonti, presidente della (neo) Federazione sistema gioco Italia. Ma questo non sorprende affatto, sta nella normale logica delle cose.

Quello che soprende è l’atteggiamento dello Stato che, invece di adottare politiche tese a ridimenzionare il problema, continua inperterrito ad introdurre nuovi giochi, come le videolotterie (VLC), e ad inondarci quotidianamente di spot pubblicitari sul gioco legale e responsabile. Come lo spot intitolato “La prima volta non si scorda mai”, subito sospeso a seguito delle tante polemiche, che racconta la storia di un ragazzo che si prepara al primo appuntamento con una macchinetta mangiasoldi come se si stesse preparando al primo appuntamento con una ragazza. Tutto questo è francamente inaccettabile.
Fonte: CONTROCOPERTINA

lunedì 10 settembre 2012

Brancaccio: basta euro-sacrifici, è ora di mollare Monti

Più volte abbiamo sentito esponenti di governo affermare che si intravedeva la luce in fondo al tunnel e che la crisi stava per finire. Già nel 2009 lo diceva Berlusconi. Non mi risulta che Monti e Passera abbiano elementi nuovi per rendere il loro ottimismo più credibile di quello dell’ex premier. Le previsioni delle istituzioni internazionali parlano chiaro: a fine 2012 il Pil sarà caduto di altri due punti, e nemmeno per il 2013 si intravede una ripresa. Quel che dice Moody’s in realtà vale poco. I pareri delle agenzie di rating vengono tuttora usati per fini di lotta politica interna. Ma tra gli operatori finanziari le agenzie ormai godono di una scarsa reputazione per la sequenza di errori clamorosi che hanno commesso in questi anni. La famigerata tripla A che assegnavano a Lehman Brothers poco prima del suo tracollo è solo uno dei tanti. Non a caso, le ricerche più recenti mostrano che l’impatto degli annunci delle agenzie di rating sugli andamenti del mercato è modesto, talvolta addirittura risibile.
L’unica vera novità di questa estate è la presa di posizione del presidente della Banca Centrale Europea: Draghi ha dichiarato che farà tutto ciò che è in Emiliano Brancacciosuo potere per salvare l’euro, ed ha aggiunto che riuscirà nell’intento. La Bce si è quindi messa in prima linea per difendere la zona euro contro eventuali attacchi speculativi. Questo ha messo gli speculatori in stato d’attesa. L’ondata di vendite di titoli che si attendeva nel corso dell’estate, per il momento non è avvenuta. Molti ritengono che la svolta di Draghi sia stata decisiva, e abbia finalmente scongiurato il pericolo di implosione della zona euro. Ma la realtà è che la posizione della Bce nasconde una gigantesca contraddizione interna. La Bce è disposta ad acquistare i titoli dei paesi periferici solo a condizione che questi paesi proseguano con le politiche di austerità e di abbattimento del debito. Questa condizione genera però una incoerenza logica: come stiamo osservando in Grecia, ma anche in Italia, le politiche di austerity non aiutano a risanare i conti. Al contrario deprimono i redditi e quindi rendono sempre più difficile il rimborso dei debiti, sia pubblici che privati.
Di sicuro stiamo assistendo a un processo di “centralizzazione” dei capitali europei, che favorisce soprattutto la Germania. Costringere i paesi periferici della zona euro ad attuare politiche di austerity significa infatti aggravare la loro crisi e peggiorare la loro posizione debitoria. Di questo passo tali paesi si vedono costretti a far fronte ai debiti vendendo a prezzi di sconto gran parte del patrimonio nazionale, pubblico e privato: immobili, partecipazioni azionarie in aziende strategiche, banche, magari persino le isole e altri beni demaniali. Per chi dispone di molta liquidità si creano quindi grandi Draghi e Montioccasioni per fare shopping a buon mercato nei paesi periferici. E la liquidità, guarda caso, è abbondante soprattutto in Germania.
L’asse Monti-Hollande? Se anche ci fosse non mi pare che funzioni. Del resto, per la cultura che incarna, il professor Monti sembra più incline ad assecondare i processi in corso che a contrastarli. Solo per citare un esempio, per Monti la vendita di capitali nazionali a favore di acquirenti esteri deve ritenersi un fatto positivo, addirittura taumaturgico. Eppure basterebbe guardare all’esperienza italiana degli anni ’90 per capire che le acquisizioni estere non portano sempre benefici ma anzi possono fare molti danni al tessuto produttivo di un paese. Una riedizione del governo Monti dopo le elezioni? È l’auspicio di chi è disposto a tenere l’Italia nella zona euro a tutti i costi. Monti viene presentato come un baluardo intorno al quale riunirsi per impedire la vittoria delle forze anti-euro. A sinistra questa linea d’azione fa presa anche tra coloro che, dopo i primi entusiasmi, ormai diffidano dell’operato del premier. Il motivo è che tutte le forze di sinistra appaiono completamente soggiogate dall’idea che l’euro, nonostante le sue enormi contraddizioni, rappresenti una conquista alla quale non è possibile rinunciare.
Nel nostro libro cerchiamo di spiegare che questo atteggiamento è il frutto di un liberoscambismo acritico che da tempo pervade la sinistra, moderata o radicale che sia. Il problema è che a lungo andare questa posizione politica potrebbe rivelarsi insostenibile. Infatti, per come attualmente è configurata, l’Unione monetaria europea alimenta la crisi dei paesi periferici, spingendo sempre più in alto i numeri dei licenziamenti e delle bancarotte. In uno scenario simile, le forze politiche che propongono l’uscita dalla moneta unica e magari anche dal mercato unico europeo sono destinate a veder crescere i loro consensi, a danno soprattutto di quelle che hanno scelto di Pierluigi Bersaniarroccarsi in difesa dell’Unione. La dichiarazione di Berlusconi sulla possibile uscita dall’euro? E’ un sintomo del fatto che le forze di destra appaiono più pronte delle forze di sinistra a gestire l’inasprimento della crisi e ad elaborare, di conseguenza, una eventuale strategia di uscita dall’euro.
Questo appiattimento delle forze di sinistra in difesa dell’unione monetaria è un fatto sconcertante, che tra l’altro deprime la loro stessa capacità di agire dialetticamente per riformarla. Leggo che Bersani tuttora insiste con l’idea che il suo partito resterà fedele all’euro a tutti i costi. Mi rincresce notare che anche le altre forze della sinistra considerano l’euro un fatto indiscusso. In questo modo, però, ci si appiattisce inesorabilmente tutti sulla linea dei già numerosi pasdaran del montismo. Io credo invece che la sinistra, per restare fedele a sé stessa e maggiormente ancorata alla realtà della crisi, dovrebbe dichiarare che esiste un limite ai sacrifici che si possono imporre a un paese in nome della permanenza nella zona euro. Lasciare soltanto alla destra e alle forze cosiddette populiste la elaborazione di una eventuale strategia di uscita è un errore che potrebbe rivelarsi fatale.
Fonte:Libreidee.org

martedì 4 settembre 2012

LA BARCLAYS HA GUADAGNATO MEZZO MILIARDO CON LE SCOMMESSE SULLA CRISI ALIMENTARE

e  rivela senza vergogna di essere tra i più efficienti degli speculatori,  mentre milioni di esseri umani muoiono di fame

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La Barclays ha guadagnato almeno mezzo miliardo di sterline in due anni speculando su generi di prima necessità come grano e soia, confermando le accuse che le banche traggono profitti profumati dalla crisi alimentare globale.
La Barclays è la banca britannica, più coinvolta nel commercio di materie prime alimentari ed è una dei tre maggiori attori globali, insieme ai giganti bancari americani Goldman Sachs e Morgan Stanley, che investono nella ricerca del “World Development Movement”.

La scorsa settimana il gigante commerciale Glencore è stato attaccato per aver detto che la crisi alimentare globale e l’aumento dei prezzi sono una "buona" opportunità di business.
Il grado di coinvolgimento della Barclays nella speculazione alimentare è venuto alla luce guardando i numeri della Banca Mondiale che dimostrano che i prezzi degli alimentari, a livello mondiale, hanno toccato il massimo storico nel mese di luglio, a causa degli scarsi raccolti negli Stati Uniti e in Russia e hanno registrato un aumento senza precedenti, del 10% in un solo mese.
Il fatto che anche una sola banca sia coinvolta nei mercati agricoli fa crescere le preoccupazioni che la speculazione alimentare potrebbe contribuire a spingere i prezzi base tanto in alto da innescare un'ondata di rivolte nei paesi più poveri del mondo, perché i prezzi raggiungerebbero livelli non più alla portata delle loro popolazioni.
E nemmeno il Regno Unito è sfuggito all’aumento dei costi dei prodotti alimentari. Secondo l'Ufficio Nazionale di Statistica, negli ultimi sette anni i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati in media del 37,9 per cento, per il presentarsi di una domanda sempre più ricca e crescente di alimentazione da parte di una popolazione mondiale in aumento.
Oli e grassi sono aumentati del 63 % nel Regno Unito in questo periodo, i prezzi del pesce del 50,9 %, pane e cereali del 36,7 %, la carne del 34,5 % , e le verdure del 41,3 %. Nel mese di aprile, la media dei prezzi dei prodotti alimentari britannici è aumentata del 4,2 % cento rispetto a un anno prima.
Rob Nash, consulente del settore privato di Oxfam, ha dichiarato: "Il mercato alimentare sta diventando un parco giochi per gli investitori, piuttosto che un luogo di mercato per gli agricoltori. La tendenza dei grandi investitori a scommettere sui prezzi alimentari sta trasformando il cibo in un asset finanziario, che può esasperare il rischio di picchi dei prezzi che colpiscono i più poveri."
Il Rapporto sul Movimento dello sviluppo mondiale stima che nel 2010 e nel 2011 la Barclays ha guadagnato 529 milioni di sterline dalle sue "attività speculative sugli alimentari". La Barclays ha guadagnato 340 milioni nel 2010, per le sue speculazioni sui prezzi al rialzo di prodotti agricoli di base come mais, frumento e soia sono. L'anno dopo, la banca ha guadagnato meno - solo 189 milioni – perché i prezzi sono scesi - ha detto il WDM.
Le entrate di Barclays e di altre banche, che derivano da negoziazione di qualsiasi cosa, dal grano e mais al caffè e cacao, si prevedono in aumento anche quest'anno, con prezzi ancora una volta in rialzo. I prezzi del mais sono aumentati del 45 % dall'inizio di giugno e il grano ha fatto un salto del 30 %.
La Barclays fa la maggior parte delle sue "speculazioni alimentari" con la creazione e la gestione di fondi che raccolgono e investono il denaro dei fondi pensione, delle compagnie di assicurazione e di gente facoltosa per comprare una varietà di prodotti agricoli pagando in cambio tutte le spese e le commissioni. La banca ammette di non investire denaro proprio in questi prodotti.
Da quando la deregolamentazione nel 2000 ha permesso la creazione di questi fondi, gli istituti come la Barclays hanno incanalato complessivamente la sorprendente cifra di US$ 200 miliardi (£ 126bn) di denaro contante verso investimenti in prodotti agricoli - secondo la Commissione Commodity Futures Trading US.
Il predominio della Barclays nel commercio di materie prime è dovuto al suo ex amministratore delegato Bob Diamond, che era il banchiere più pagato in Gran Bretagna fino a quando non è stato costretto a dare le dimissioni il mese scorso a seguito di una multa di £ 290 milioni per il tentativo di manipolare il tasso di interesse Libor. Come capo della Barclays Capital ha potenziato il commercio in prodotti agricoli.
Trattare con il riconosciuto mal di testa che provocano le speculazioni ad alto livello sul cibo sarà un altro lavoro già contenuto nel gonfio portafoglio di Antony Jenkins, che, giovedì scorso, è stato promosso alla successione di Diamond.
Christine Haigh, responsabile politica delle campagne del World Development Movement e uno degli analisti-ricercatori, hanno dichiarato:
"Non c'è dubbio che il più grande giocatore sui mercati delle materie prime di tutto il Regno Unito speri che quest'anno possa fare più utili con l'aumento dei prezzi alimentari anche se il suo comportamento rischia di alimentare una bolla speculativa che provoca fame e povertà per milioni di persone tra le più povere del mondo."
Le banche e i fondi speculativi in genere sostengono che la speculazione non fa quasi nessuna differenza sulla volatilità dei prezzi dei prodotti alimentari e che, su questa relazione, non è stato provato nessun collegamento definitivo. La Barclays ha rifiutato di fare commenti su quanto denaro ha già guadagnato con il commercio di prodotti agricoli.
La banca ha difeso il suo operato, sottolineando che il commercio dei cosiddetti “future” - un accordo per acquistare o vendere una certa quantità di un prodotto, ad un prezzo determinato in una data convenuta - ha aiutato le parti, come agricoltori o panettieri a coprirsi dal rischio di salita o di discesa dei prezzi. "I nostri clienti sono società di investimento, produttori e consumatori, che, tra le altre cose, cercano il nostro aiuto per gestire i rischi."
La Barclays ha anche rifiutato di commentare se ha pensato che enormi speculazioni possano spingere i prezzi e la volatilità verso l’alto. Un portavoce ha detto: "Ci rendiamo conto che c'è una percezione che l’entrata nei mercati dei future agricoli da parte di alcuni attori interessati possa influenzare indebitamente i prezzi delle materie prime. Infatti, continuiamo a monitorare attentamente le tendenze del mercato e le ricerche in atto su questo tema. ".
Analisti di Barclays Capital hanno ammesso, in una nota ai clienti nel mese di febbraio, che la speculazione ha spinto in alto i prezzi. La Barclays ha detto: "Il secondo driver chiave è che gli investitori sulle materie prime hanno ricominciato a mettere soldi nelle commodities delle materie prime quando all'inizio del 2012 il settore era pesantemente sottoesposto."
Gli altri driver sono lo stato della "salute dell'economia globale" e "il tempo e la geopolitica".
Fonte:ComeDonChisciotte.org, traduzione a cura di Ernesto Celestini