Sarà forse perché chi ha un martello vede chiodi dappertutto
ma quando lo studioso di organizzazione guarda la politica di oggi
questa non può non sembrargli come il letto di un fachiro. E nessuno in
giro a tentare di ribattere almeno qualche chiodo. Quali consigli, da
non addetti ai lavori s’intende, dare dunque ad una Politica che,
disponendo ancora – per pura ipotesi – di un residuo istinto di
sopravvivenza volesse, pur di misura, evitare il baratro che ha di
fronte? Mi limiterei a tre banali considerazioni, chiarissime all’uomo
della strada ma incomprensibilmente oscure ai professionisti della
politica.
Riportare almeno parte del potere nelle mani dei cittadini.
E’ molto difficile presso le persone comuni, come siamo tutti noi,
accreditare l’idea che le decisioni che riguardano le condizioni di
impiego di quei particolari servitori pro-tempore dello Stato quali sono
(o dovrebbero essere) i politici quando ricevono un incarico ufficiale –
dallo stipendio, ai rimborsi spese, ai benefit, alla pensione, ai posti
disponibili in Parlamento e varie assemblee, alle auto blu e via
enumerando – siano prese dagli stessi sui quali ricadranno i benefici
delle stesse decisioni. In questo caso è veramente molto ingenuo
lamentarsi del fatto che lorsignori antepongano i propri interessi a
quelli degli altri cittadini. Si potrebbe dire che non è loro la colpa
di un simile comportamento, assolutamente prevedibile per chi abbia un
minimo di conoscenza della natura umana ma, se una colpa c’è, questa è
da ascriversi solo ed unicamente al cosiddetto popolo sovrano che ha
evidentemente e da molto tempo deciso di rinunciare alla sua presunta
sovranità mettendo la volpe a guardia del pollaio. Anche se la politica
non è solo organizzazione essa è anche organizzazione e aver trascurato
in passato questo aspetto puramente organizzativo – non aver pensato
cioè che le regole influenzano in modo determinante il gioco – ha creato
le condizioni per danni e sprechi immani che tutti noi siamo tenuti ora
a pagare.
In una qualsiasi azienda i benefit degli operai vengono decisi non dagli operai
ma dai dirigenti e quelli dei dirigenti dalla proprietà. Non ci sarebbe
dunque nulla di strano e sarebbe altamente salutare che, nella
politica, a stabilire i benefit dei politici non fossero loro stessi ma
apposite commissioni di cittadini comuni (se l’espressione popolo sovrano ha
un qualche fondamento, non sono forse questi, cioè i cittadini, la
«proprietà»?). Coraggio, aspiranti leader in cerca di consenso, non sono
questi tempi in cui farsi guidare dalla paura e dalla mancanza di
immaginazione !
Accettare l’idea blasfema che decidere la regola delle regole, cioè chi deve governare, non è materia da politici.
I sistemi elettorali hanno questo di sbagliato, che ognuno viene
sponsorizzato dalla forza politica che ne trae il maggior vantaggio. Si
tratta di un gioco sporco fin dall’inizio che i politici dovrebbero
avere l’intelligenza di abbandonare. Il sistema elettorale
organizzativamente migliore – quello cioè che guarda al Paese e non agli
interessi di questo o di quello e conseguentemente che fa meno danni di
tutti gli altri – è quello studiato da puri scienziati dei sistemi
costituzionali privi di qualsiasi interesse di parte che funzionano alla
stregua di arbitri di una competizione alla quale né devono né possono
prendere parte. Non c’è nessuno sport dove l’atleta mette il becco nel
regolamento di gara, stabilito invece da altri che sono fuori dal gioco.
Cari politici , fate qualcosa di analogo e la fiducia, che vi siete
giocati, magari ritornerà.
Smetterla, una volta per tutte, con l’occupazione manu militari di tutto l’occupabile.
La politica diventa cattiva politica quando abbandona la missione che
le è propria – scegliere qual è il tipo di società nella quale si vuole
vivere – e occupa ambiti che non le appartengono come la gestione,
l’amministrazione, l’economia. Quando la politica “mette” un certo
direttore generale in un certo posto non perché costui realizzi la
missione dell’ente che governa ma perché risponda e assicuri vantaggi a
chi ha facilitato la nomina – un fatto normale oggi, che non fa più
notizia – ebbene gli sprechi generati, non solo economici ma anche e
soprattutto umani, sono enormi. Domanda: esiste un qualche fondato
motivo, una ragionevole preoccupazione democratica che possa
giustificare l’occupazione progressiva che la politica ha condotto in
Italia finendo con il condizionare aspetti della vita di tutti noi circa
i quali non ha mai ricevuto alcuna delega?
Prendiamo il caso della burocrazia. Nessuno ne contesta la necessità,
bisogna pur amministrare il funzionamento della società. Ma il passo
tra necessità amministrativa e metastasi burocratica che tutto soffoca è
molto breve ed è ciò che stiamo sperimentando da qualche decennio. Se
il compito di amministrare la società venisse affidato sulla base di
obbiettivi, responsabilità, controllo e merito, come è regola negli
ambienti aziendali tanto disprezzati da una certa cultura italiana e la
politica mollasse la sua presa mortale su ciò che non le è proprio per
dedicarsi meglio a ciò che dovrebbe fare – e non fa – potremmo
sciogliere la metastasi con enormi vantaggi per la libertà di
intraprendere e per i suoi vincoli che oggi la rendono così difficile e
in casi sempre più numerosi del tutto antieconomica. E tutto questo non
solo nel campo dell’industria ma anche in quello della piccola impresa e
delle professioni.
Non credo che gli italiani siano sufficientemente consapevoli
di quale gigantesca sottrazione di libertà – ogni euro di tasse pagate
in più per coprire sprechi ingiustificabili è un esproprio di libertà –
sia stata perpetrata ai loro danni negli ultimi quaranta anni sotto la
bandiera ipocrita dei diritti e del progresso (oh sì, certo, qualcuno
un bel progresso l’ha fatto di sicuro ma oggi sappiamo bene chi è che
ha sbancato il lotto), forse perché è avvenuta un passetto dopo l’altro,
in modo indolore. Un nuovo consenso politico è disponibile, ci sono
tutti i segni, per chi sarà capace di facilitare la restituzione della
libertà espropriata a coloro cui appartiene per diritto naturale. C’è
qualcuno che lo capisce ?
di Peppe Caglini
Fonte:Tiscali.it
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