Più volte abbiamo sentito esponenti di governo affermare che si intravedeva la luce in fondo al tunnel e che la crisi stava per finire. Già nel 2009 lo diceva Berlusconi.
Non mi risulta che Monti e Passera abbiano elementi nuovi per rendere
il loro ottimismo più credibile di quello dell’ex premier. Le previsioni
delle istituzioni internazionali parlano chiaro: a fine 2012 il Pil
sarà caduto di altri due punti, e nemmeno per il 2013 si intravede una
ripresa. Quel che dice Moody’s in realtà vale poco. I pareri delle
agenzie di rating vengono tuttora usati per fini di lotta politica
interna. Ma tra gli operatori finanziari le agenzie ormai godono di una
scarsa reputazione per la sequenza di errori clamorosi che hanno
commesso in questi anni. La famigerata tripla A che assegnavano a Lehman
Brothers poco prima del suo tracollo è solo uno dei tanti. Non a caso,
le ricerche più recenti mostrano che l’impatto degli annunci delle
agenzie di rating sugli andamenti del mercato è modesto, talvolta
addirittura risibile.
L’unica vera novità di questa estate è la presa di posizione del
presidente della Banca Centrale Europea: Draghi ha dichiarato che farà
tutto ciò che è in suo
potere per salvare l’euro, ed ha aggiunto che riuscirà nell’intento. La
Bce si è quindi messa in prima linea per difendere la zona euro contro
eventuali attacchi speculativi. Questo ha messo gli speculatori in stato
d’attesa. L’ondata di vendite di titoli che si attendeva nel corso
dell’estate, per il momento non è avvenuta. Molti ritengono che la
svolta di Draghi sia stata decisiva, e abbia finalmente scongiurato il
pericolo di implosione della zona euro. Ma la realtà è che la posizione
della Bce nasconde una gigantesca contraddizione interna. La Bce è
disposta ad acquistare i titoli dei paesi periferici solo a condizione
che questi paesi proseguano con le politiche di austerità e di
abbattimento del debito. Questa condizione genera però una incoerenza
logica: come stiamo osservando in Grecia, ma anche in Italia, le
politiche di austerity non aiutano a risanare i conti. Al contrario
deprimono i redditi e quindi rendono sempre più difficile il rimborso
dei debiti, sia pubblici che privati.
Di sicuro stiamo assistendo a un processo di “centralizzazione” dei
capitali europei, che favorisce soprattutto la Germania. Costringere i
paesi periferici della zona euro ad attuare politiche di austerity
significa infatti aggravare la loro crisi
e peggiorare la loro posizione debitoria. Di questo passo tali paesi si
vedono costretti a far fronte ai debiti vendendo a prezzi di sconto
gran parte del patrimonio nazionale, pubblico e privato: immobili,
partecipazioni azionarie in aziende strategiche, banche, magari persino
le isole e altri beni demaniali. Per chi dispone di molta liquidità si
creano quindi grandi occasioni
per fare shopping a buon mercato nei paesi periferici. E la liquidità,
guarda caso, è abbondante soprattutto in Germania.
L’asse Monti-Hollande? Se anche ci fosse non mi pare che funzioni.
Del resto, per la cultura che incarna, il professor Monti sembra più
incline ad assecondare i processi in corso che a contrastarli. Solo per
citare un esempio, per Monti la vendita di capitali nazionali a favore
di acquirenti esteri deve ritenersi un fatto positivo, addirittura
taumaturgico. Eppure basterebbe guardare all’esperienza italiana degli
anni ’90 per capire che le acquisizioni estere non portano sempre
benefici ma anzi possono fare molti danni al tessuto produttivo di un
paese. Una riedizione del governo Monti dopo le elezioni? È l’auspicio
di chi è disposto a tenere l’Italia nella zona euro a tutti i costi.
Monti viene presentato come un baluardo intorno al quale riunirsi per
impedire la vittoria delle forze anti-euro. A sinistra questa linea
d’azione fa presa anche tra coloro che, dopo i primi entusiasmi, ormai
diffidano dell’operato del premier. Il motivo è che tutte le forze di
sinistra appaiono completamente soggiogate dall’idea che l’euro,
nonostante le sue enormi contraddizioni, rappresenti una conquista alla
quale non è possibile rinunciare.
Nel nostro libro cerchiamo di spiegare che questo atteggiamento è il
frutto di un liberoscambismo acritico che da tempo pervade la sinistra,
moderata o radicale che sia. Il problema è che a lungo andare questa
posizione politica potrebbe rivelarsi insostenibile. Infatti, per come attualmente è configurata, l’Unione monetaria europea alimenta la crisi
dei paesi periferici, spingendo sempre più in alto i numeri dei
licenziamenti e delle bancarotte. In uno scenario simile, le forze
politiche che propongono l’uscita dalla moneta unica e magari anche dal
mercato unico europeo sono destinate a veder crescere i loro consensi, a
danno soprattutto di quelle che hanno scelto di arroccarsi in difesa dell’Unione. La dichiarazione di Berlusconi
sulla possibile uscita dall’euro? E’ un sintomo del fatto che le forze
di destra appaiono più pronte delle forze di sinistra a gestire
l’inasprimento della crisi e ad elaborare, di conseguenza, una eventuale strategia di uscita dall’euro.
Questo appiattimento delle forze di sinistra in difesa dell’unione
monetaria è un fatto sconcertante, che tra l’altro deprime la loro
stessa capacità di agire dialetticamente per riformarla. Leggo che
Bersani tuttora insiste con l’idea che il suo partito resterà fedele
all’euro a tutti i costi. Mi rincresce notare che anche le altre forze
della sinistra considerano l’euro un fatto indiscusso. In questo modo,
però, ci si appiattisce inesorabilmente tutti sulla linea dei già
numerosi pasdaran del montismo. Io credo invece che la sinistra, per
restare fedele a sé stessa e maggiormente ancorata alla realtà della crisi,
dovrebbe dichiarare che esiste un limite ai sacrifici che si possono
imporre a un paese in nome della permanenza nella zona euro. Lasciare
soltanto alla destra e alle forze cosiddette populiste la elaborazione
di una eventuale strategia di uscita è un errore che potrebbe rivelarsi
fatale.
Fonte:Libreidee.org
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