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sabato 4 febbraio 2012
Al via un mese di mobilitazione contro i caccia F-35, la Rete sul Disarmo: "Costano 15 miliardi, scelta scellerata"
di Antonella Loi
L'annuncio della mobilitazione contro l'acquisto da parte dello Stato italiano di 131 caccia F35, per un costo totale di 15 miliardi di dollari, precede solo di poche ore la notizia dell'ulteriore acquisto da parte dello Stato maggiore dell'esercito di nuovi "semoventi con supercannone da 155 millimetri" prodotti da Iveco e Finmeccanica. A fronte di 70 mezzi già acquistati e fino ad ora inutilizzati, scrive l'Espresso. L'industria della guerra lavora a pieno regime mentre l'interpretazione "montiana" della crisi economica impone sacrifici come macigni sulla quotidianità dei cittadini: tagli alla sanità, alla scuola, all'università ai servizi sociali in genere. Ma non agli investimenti per la produzione di armamenti.
E' contro questa "scelta scellerata" che prende il via il mese di proteste delle decine di associazioni della "Rete italiana per il disarmo" che culminerà il 25 febbraio nell'iniziativa "Cento piazze d'Italia contro i caccia F-35". Il battage su Facebook e Twitter è già cominciato, mentre partirà martedì prossimo la raccolta delle firme da consegnare al governo a fine mese. "Sarà il nostro modo di chiedere al presidente del Consiglio Monti di aprire un tavolo di confronto sul tema degli armamenti e, soprattutto, degli F-35", ci spiega Francesco Vignarca, coordinatore della Rete per il Disarmo. Perché, se il ministro della Difesa, l'ammiraglio Giampaolo Di Paola, ha ripetuto a più riprese che "i tagli non riguarderanno le spese militari" perché "la crisi non fa venire meno funzioni fondamentali come la Difesa", più di un'ombra emerge da dietro la sagoma dei Joint Strike Fighter F-35 che l'Italia ha promesso di acquistare nonostante tutto.
Stando all'accordo firmato nel 2007 dall'allora sottosegretario alla Difesa (con Prodi) Giovanni Lorenzo Forcieri, oggi presidente dell'Autorità portuale della Spezia, nel "Memorandum of understanding", è stabilito che ciascuno Stato firmatario possa "ritirarsi con un preavviso scritto di 90 giorni da notificarsi agli altri compartecipanti". L'elemento che interessa, emerso da un'inchiesta di Altraeconomia - e ammesso dagli stessi rappresentanti del ministero della Difesa - è che nessun ulteriore esborso è dovuto a titolo di penale dallo Stato che dovesse decidere di non acquistare più gli F-35. Domanda: perché l'Italia, visto il momento, non desiste dall'acquisto?
"Noi sosteniamo che non sia assolutamente il caso di andare avanti - dice Vignarca - tanto più che ormai pochi argomenti rimangono a supporto del progetto". Però quaranta imprese italiane coinvolte nella costruzione, come rivelato dal ministro durante un'audizione alla Camera, e un migliaio di nuovi posti di lavoro, sono un'argomentazione "che tira", potremmo dire senza timor di smentita. E il prezzo da pagare per creare occupazione è accollarsi 131 aerei da combattimento a suon di miliardi di dollari. "Senta - sbotta il coordinatore della Rete Disarmo - dal ministro vigliamo innanzitutto chiarezza: lui parla di 40 imprese coinvolte, poi arriva in Italia Tom Burbage (vice-presidente del programma F-35/JSf, in rappresentanza della Lockheed Martin, la società capocommessa del progetto ndr) e ne cita 20. Qualcuno mente. E poi - continua - non si sa se queste aziende siano sotto contratto o se abbiano in qualche modo collaborato e per quale importo". Una seconda "foglia di fico" strappata via dai numeri.
Secondo i dati forniti dal rappresentante del segretariato generale alla Difesa, generale Esposito, durante un’audizione alla Camera, risulterebbero circa 540 milioni di contratti. "Benissimo ma di che contratti si tratta, sono destinati alle prime fasi o riguardano tutta la vita del programma", chiede Vignarca. "Esposito dice che ogni aereo costerebbe 70 mln (mentre a noi ne risultano 115), con ritorni monetari inverosimili". Il conto è presto fatto: moltiplicando 70 per 131 aerei va a finire che noi spenderemmo poco meno di 10 miliardi con un introito, dicono i dati ufficiali, di 14. "Ora fatemelo vedere un accordo industriale fra governi che prevede più ritorno per chi compra rispetto a chi vende. Sembra che la stiano sparando", è la convinzione di Vignarca. Senza contare, aggiunge, che non si sa ancora bene quali parti degli F-35 si costruiranno in Italia e in che misura.
E sui proclami del ministro che annuncia 10mila nuovi posti di lavoro che dire? "L'unica cosa certa è che nello stabilimento della privata Alenia verranno fatte le ali commissionate dalla Lockheed aeronautica che ipoteticamente potrebbero essere 1200; ma sicure da contratto per ora sono solo 200. Nell'altra struttura, la Faco, si dovrebbe fare poi esclusivamente l'assemblaggio finale e controllo dei velivoli italiani (131) e olandesi (160)". Che poi questi ultimi abbiano deciso di ritardare il programma di almeno due anni aggiunge dettagli interessanti all'analisi. Morale della favola: per ora è certo che a Cameri si lavorerà su pochissimi aerei, il grosso della commessa (gli Usa acquisteranno circa 1200 velivoli) verrà realizzata direttamente negli Stati Uniti.
Alla fine della giostra i dati sindacali sulle ricadute occupazionali dicono che al massimo si tratterà di "un centinaio di unità lavorative in più". Perché se consideriamo che lo stabilimento di Finmeccanica di Caselle solo pochi giorni fa ha perso la preziosa commessa dei velivoli "Eurofighter 3" destinati all'India (che invece comprerà i francesi "Rafale" per 10 miliardi di dollari) è presumibile che "il numero dei nuovi occupati non andrà a 'somma', ma a 'sottrazione' di quello di Caselle", per dirla ancora con i sindacati.
Se il ministro Di Paola nei giorni scorsi ha detto che il governo intende "ridurre il programma" pur senza arretrare, la decisione finale verrà presa il prossimo 8 febbraio giorno in cui il presidente della Repubblica riunirà al Quirinale il Consiglio supremo di difesa da lui presieduto. In attesa di capire quanto sia forte la "ragion di Stato", la convinzione è che "dietro ci sia una scelta di stampo aeronautico-militare che privilegia certi rapporti con gli Stati Uniti". Senza dimenticare, dice Vignarca, che su Di Paola pesa un doppio conflitto d'interessi. Fu lui infatti a firmare nel 2002 a Washington - all'epoca era Segretario generale della Difesa e "strenuo sostenitore del programma Jsf" - l'accordo per la partecipazione dell'Italia alla prima fase SDD. "Sta nella natura dei militari prendere una strada e percorrerla fino in fondo ad ogni costo, mentre fare scelte politiche è un'altra cosa. Per questo - conclude - ritengo che nominare Di Paola alla Difesa non sia stata una scelta opportuna".
Fonte Tiscali.it
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