giovedì 9 febbraio 2012

"Cresci Italia" le tre verità improbabili di Mario Monti

Che il governo del prof. Monti fosse un governo politico dei "mercati", fin dall'inizio è apparso evidente. Ora, dopo il megadecreto di oltre 100 pagine sulle "liberalizzazioni", che ha suscitato proteste diffuse lungo tutto lo stivale e anche qualche punta di rivolta, si è aggiunta una prova in più. Forse anche per effetto di un frenetico can can mediatico, cui l'austero professore ha partecipato senza risparmio, la finalità del decreto denominato «Cresci Italia» si è dispersa in mille rivoli. Apparsa subito piuttosto sfocata, ha finito per essere sommersa nel grande mare di innumerevoli provvedimenti a pioggia, illuminati solo dalla stella polare del "libero mercato". Qualcuno ha scritto che quando ha visto Sarkozy e Merkel di fronte «all'eleganza dignitosa e riservata dell'italiano Monti» il suo cuore non «ha potuto reprimere un sobbalzo d'orgoglio». E' vero che per inorgoglirsi basta poco. Ma non prendiamo fischi per fiaschi, ritenendo che sia sufficiente mandare a casa Berlusconi per uscire dalla crisi e salvare l'Italia. Come se l'uomo di Arcore fosse l'artefice di questa crisi globale del capitale, che in Italia, come in ogni Paese, si presenta con caratteristiche peculiari. Se ne devono essere accorti anche nel Pd, se l'Unità ha aperto un dibattito sul capitalismo in crisi. Certo, il professore varesino non fa il gesto delle corna, non apostrofa la cancelliera tedesca con epiteti volgari, non si atteggia a bullo esibizionista come il comandante della Concordia naufragato sugli scogli. E' di buone maniere, alto ed elegante, sobrio ed educato, parla bene l'inglese ed ha molta dimestichezza con lo spread. Una bella differenza rispetto al passato. Ma che vuol dire? Anche Reagan era alto ed elegante. E la signora Thatcher una bella donna che chissà quanti inglesi ha fatto inorgoglire. Eppure hanno combinato disastri, scatenando i "liberi mercati" che hanno acceso la miccia della crisi. Ma se l'abito non fa il monaco, analizziamo allora, al di là dei singoli provvedimenti, la strategia del professore per la crescita, che in verità appare piuttosto deludente e molto vecchia. Tuttavia, televisivamente parlando, senza smargiassate ma con toni morbidi e quasi sotto voce, Mario Monti ci fa sapere che tutto è a posto. Anzi, l'avvenire si colora decisamente di rosa quando enuncia la sua prima "verità": con questi provvedimenti ci sarà un «aumento di produttività del 10 per cento e sullo stesso ordine di grandezza potrà salire il Pil». Ottimo, ci porteremo a livelli di crescita pari, se non superiori, a quelli della Cina. Con il consumo privato e l'occupazione in aumento dell'8 per cento, gli investimenti del 18 per cento, i salari reali di quasi il 12 per cento. Non sono numeri del lotto, ma le cifre ufficiali indicate nel comunicato del governo. Insomma, ci stiamo avviando serenamente verso il Paese di Bengodi. Ma è lecito affidarsi ad alcune proiezioni dell'Ocse e ad «altri studi» non specificati per far credere agli italiani che il secondo decreto dei professori ci trasporterà magicamente in questo nuovo mondo? Se si domanda come, quando e perché si raggiungeranno tali fantastici traguardi, non ci sono spiegazioni. Quindi, le ipotesi sono due. O il governo - come la Spectre - dispone di un'arma segreta, che userà al momento opportuno cogliendo tutti di sorpresa. Oppure il professore ritiene davvero che aumentando di qualche migliaio il numero di farmacisti e notai; mettendo gli uni contro gli altri tassisti e benzinai, che potranno far concorrenza ai giornalai; mercatizzando totalmente gli avvocati; allungando senza limiti l'orario dei negozi; e via "liberalizzando", con conseguenze prevedibili sulla "coesione sociale" da tutti invocata, questo Paese veleggerà felicemente verso una stratosferica crescita del Pil pari al 10 per cento. Se così fosse, e probabilmente così è, allora dovremmo dar ragione a un grande esperto come John K. Galbraith, il quale sosteneva che la sola funzione delle previsioni economiche è quella di rendere più rispettabile l'astrologia. Del resto, è stato lo stesso capo del governo a dover subito smentire che i salari reali cresceranno del 12 per cento. L'unica certezza è che non si ha notizia di un piano per l'occupazione e per il lavoro. Né di un programma di investimenti per l'innovazione scientifica e tecnologica, di un progetto di riconversione ecologica dell'economia e della messa in sicurezza del territorio nazionale. Insomma, l'idea di mettere in moto una diversa qualità dello sviluppo, mobilitando investimenti e saperi, rendendo protagoniste le persone che lavorano, non sfiora la mente austera del professore, il quale si affida serenamente alle virtù taumaturgiche del mercato. La strategia di Mario Monti è però del tutto coerente con la sua interpretazione della crisi: «L'economia italiana è stata per decenni frenata soprattutto da tre vincoli: concorrenza insufficiente, inadeguatezza delle infrastrutture e complicazione delle procedure amministrative». E qui emerge la seconda improbabile "verità" del professore. E' vero: concorrenza insufficiente, anzi piuttosto assente (ma non è così anche in Europa e nel mondo, dove dominano superconcentrazioni monopolistiche di proprietari universali, denominate asetticamente "mercati"?) e poi inadeguatezza delle infrastrutture e complicazioni amministrative. Tuttavia queste non sono le cause di fondo di una crisi globale che investe il sistema capitalista del XXI secolo, bensì soltanto aggravanti italiane che si possono affrontare in due modi: o mettendo sotto controllo i "mercati" per risalire alle cause effettive della crisi, e quindi avviare un diverso modello di sviluppo superando così le nostre arretratezze; oppure dare più potere al mercato, perché sospinga in senso ancor più liberista l'intera società italiana. La seconda strada è quella che ci porta indietro, verso un capitalismo "buono" che nella realtà non esiste, e che nella sua evoluzione ha dato luogo alla crisi attuale. Mentre l'altra guarda al futuro, verso una civiltà più avanzata, come quella delineata dalla Costituzione. Il professore di Varese ha scelto decisamente la seconda strada, che comporta - come lui stesso precisa - «una rigorosa attività di limitazione dei poteri pubblici con regole di mercato». Quindi, più mercato e meno Stato, secondo la regola d'oro di questi anni con i risultati che vediamo, ma adesso applicata con molta più severità e intransigenza. All'economista bocconiano è estranea l'idea che le cause profonde della crisi abbiano origine nella natura stessa del capitale come rapporto sociale, quindi nell'economia reale, dando luogo a una disuguaglianza enorme nella distribuzione dei redditi e della ricchezza. Ma l'Italia, anche grazie alle privatizzazioni massicce, è diventata in questi anni uno dei Paesi sviluppati più disuguali del mondo, nel quale il 10 per cento della popolazione dispone del 50 per cento circa della ricchezza nazionale, mentre il 90 per cento deve accontentarsi dell'altra metà. I salari e il costo del lavoro sono precipitati ai livelli più bassi d'Europa, fino al punto che ormai la quota attribuita al lavoro dipendente sul reddito nazionale è stata drasticamente ridotta e non è troppo distante dal 46 per cento, che era la povera quota del 1881. Proprio così. In pochi anni siamo andati indietro di oltre un secolo, mentre profitti e rendite mai hanno raggiunto vette tanto alte nel Novecento. Tuttavia la ricchezza è stata "patrimonializzata", non investita per far crescere il Paese, cioè per il bene comune. In compenso, le entrate fiscali gravano per l'80 per cento sui lavoratori dipendenti e pensionati. E se le imposte dirette sono pari al 14,6 per cento del Pil, quelle sul patrimonio raggiungono la quota quasi invisibile dello 0,2 per cento. Insomma: ricchezza privata, povertà pubblica, impoverimento sociale. E' questa insostenibile condizione reale, di cui non si tiene conto come se appartenesse al mondo degli alieni, che incatena e blocca l'Italia. Non può crescere un Paese nel quale le lavoratrici e i lavoratori vengono colpiti e umiliati nel reddito e nella loro condizione sociale, ma anche nella loro dignità di persone. Suona falsa l'attenzione verso i giovani, se non viene messo a fuoco questo tema cruciale. E non basta sostenere che l'origine della crisi risiede in una "squilibrata" distribuzione dei redditi. La domanda cui bisogna rispondere a questo punto è la seguente: qual è la ragione di fondo che dà origine a una "squilibrata" distribuzione dei redditi? L'attenzione va allora portata sulle nuove forme della proprietà capitalista, il presupposto tacito dato per scontato, su cui si regge l'intera piramide della società. E infatti, se il capitale non è una "cosa", ma un determinato rapporto sociale basato su strumenti finanziari e mezzi di produzione, di comunicazione e di scambio monopolizzati da una parte della società, mentre la parte assolutamente maggioritaria ne è priva, risulta sempre più evidente che la distribuzione della ricchezza deriva in ultima analisi dalla conformazione della proprietà. Per effetto del trasferimento della proprietà pubblica e statale nelle mani di pochi potentati privati a cominciare dalle banche totalmente privatizzate, e della concessione più o meno gratuita di servizi essenziali ai privati, le disuguaglianze hanno fatto un gigantesco balzo in avanti e in parallelo si è impoverito Paese. Per brevità, faccio solo tre esempi. Nel 2009, nel pieno della crisi e senza alzare un dito nella sua azienda ma sedendo a Palazzo Chigi per occuparsi del benessere degli italiani, Silvio Berlusconi ha intascato in qualità di azionista al 63,3 per cento della Fininvest un reddito 11.490 volte maggiore di quello di un operaio Fiat di Pomigliano. Un abisso. Legittimo? Di certo, socialmente e moralmente insostenibile. Altrettanto indicativa, per altri versi, è la vicenda della famiglia Benetton, che riscuote dai pedaggi autostradali fior di miliardi senza neanche la fatica di aggrottare la fronte. In compenso, a fine 2009 aveva investito solo 5 miliardi rispetto ai 22 previsti, evidentemente con grandi benefici per gli utenti. Il massimo di una rendita parassitaria di posizione. Anche la rete delle telecomunicazioni è stata usata per l'arricchimento privato e l'impoverimento pubblico, un procedimento nel quale ha dimostrato un'ineguagliata professionalità il dottor Marco Tronchetti Provera. Come ha osservato Eugenio Scalfari, con l'uno per cento del capitale, non solo Tronchetti ha di fatto espropriato la maggioranza degli azionisti, ma ha anche confiscato a proprio vantaggio le risorse finanziarie dell'azienda che le produce, moltiplicandone l'indebitamento. Dunque, oltre alle incrostazioni e ai parassitismi che si annidano in sacche di arretratezza della società, come pure negli apparati pubblici sempre più spesso intrecciati con il potere economico offrendo terreno fertile alla criminalità organizzata, è indispensabile colpire le posizioni privilegiate e parassitarie dei monopoli e degli oligopoli privati, che tengono immobilizzata l'Italia in una camicia di forza. Non solo nel campo bancario e assicurativo, e nei settori sopra citati, ma anche nella produzione dei farmaci e nella sanità, nell'editoria, nella comunicazione, nella cultura. Tuttavia di tutto questo non c'è traccia elle mosse dei professori. E veniamo così alla terza improbabile "verità" di Mario Monti. Che senso ha parlare di "liberalizzazioni", se le formazioni monopolistiche e i centri di potere privati restano fuori dall'orizzonte dell'intervento del governo? E anzi vengono in fin dei conti rafforzati per mezzo dell'ulteriore mercatizzazione della società. Mentre non si lascia spazio all'incentivazione di nuove aggregazioni proprietarie, per esempio in forme comunitarie e sociali per gestire servizi pubblici, beni comuni e anche attività produttive, come peraltro la Costituzione prevede. In realtà, più che di liberalizzazioni effettive, volte a liberare dai parassitismi e dall'oppressione le forze produttive fondamentali, tra le quali preminente è la persona umana, e quindi le diverse componenti della società, abbiamo a che fare con una pioggia di microinterventi dagli effetti soprattutto simbolici, distribuiti su una pluralità di soggetti che non costituiscono la struttura portante della proprietà e del potere economico in Italia. La "filosofia" del professore consiste dunque nel colpire quelli che non hanno una posizione determinante negli equilibri del potere effettivo, ma che simbolicamente rappresentano per i "mercati" un segnale della voglia di fare dell'Esecutivo in direzione dell'apertura di nuovi spazi a loro disposizione. Lo sforzo è anche quello di distribuire il malcontento in tutte le direzioni, da destra a sinistra passando per il centro, in modo che nessun partito che sostiene il governo si senta particolarmente penalizzato nella sua rappresentanza, e perciò non stacchi la spina prima della conclusione naturale della legislatura. In definitiva, la strategia del governo penalizza soprattutto i lavoratori dipendenti, che costituiscono la spina dorsale del Paese, e perciò anche i giovani. E' un palese controsenso annunciare una nuova stagione di libertà se coloro i quali già non dispongono di strumenti finanziari e di mezzi di produzione e comunicazione, e per di più sono stati espropriati dell'organizzazione e dell'autonomia politica, vengono colpiti anche nei loro diritti costituzionalmente garantiti. Il modo con cui il governo sta affrontando la questione dell'articolo 18 e della disoccupazione non è affatto trasparente. Anzi, appare intriso di doppiezza e strumentalità. Se l'obiettivo è rendere sempre più "flessibile" il lavoro, è chiaro che l'articolo 18 non è tabù, resta un obiettivo. Intanto, con il decreto «Cresci Italia», è stato abolito il contratto nazionale dei ferrovieri per fare un favore a Montezemolo e Della Valle, entrati nel business della rotaia. Poi c'è la questione dirimente della Fiat, dove il contratto nazionale è stato cancellato e la Fiom, sindacato maggioritario, è stata espulsa da Mirafiori perché non ha condiviso le scelte di Marchionne. L'equivalente della soppressione della democrazia. Ma dal governo "equo" dei professori non è uscita una parola: silenzio-assenso di fronte alla dittatura del capitale. In questo caso, liberalizzazione vuol dire liberazione dei lavoratori dai diritti e dalle garanzie di libertà che hanno conquistato. L'obiettivo non è quello di potenziare ed estendere ai figli i diritti che hanno conquistato i padri, ma di cancellare i diritti dei padri per mettere in competizione i figli e sottometterli alla legge universale del profitto. L'equità non ammette deroghe. Se poi uno su mille arriverà al traguardo, rivolgeremo un bell'inchino alle leggi bronzee del mercato. Avanti dunque verso il "libero mercato": così non si farà altro che ricaricare la molla che ha fatto esplodere la crisi. Paolo Ciofi Fonte:dalla parte del lavoro

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