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martedì 7 febbraio 2012
La Fornero difende la figlia: Silvia non ha due posti fissi ma solo uno. Sui mammoni retromarcia della Cancellieri
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Silvia Deaglio, figlia del ministro al Welfare Elsa Fornero e del noto economista e giornalista Mario Deaglio, in poche ore è diventata protagonista della rete. Le parole pronunciate dalla madre contro il posto fisso, definito “una illusione” e le rivelazioni di alcuni quotidiani relative al doppio lavoro di Silvia, che a soli 37 anni è professore associato di genetica medica alla facoltà di Medicina dell'Università di Torino e responsabile della ricerca alla fondazione Hugef, hanno acceso la protesta e l’ironia del web, in particolare da parte dei tanti giovani per i quali il posto fisso sembra essere un traguardo irraggiungibile.
Questa mattina è però arrivata una presa di posizione da parte di Elsa Fornero. Dal ministero è stato precisato che Silvia Deaglio non ha due lavori, ma è docente universitario, pagata solo dall'ateneo, e che la ricerca, alla quale si è dedicata dopo avere lavorato per due anni ad Harvard, è sostenuta da un finanziamento internazionale. La precisazione del ministero non cancella però il fatto che Silvia Deaglio, a soli 37 anni, ha un lavoro a tempo indeterminato nel super tutelato e privilegiato mondo accademico e che, almeno per lei, non valgono le “verità” enunciate dalla madre sul fatto che il posto fisso sia “una illusione” o quelle pronunciate dal presidente del Consiglio che il posto fisso “sia monotono”.
Come giustamente è stato fatto notare, nella storia della baby Fornero non c’è nulla di “illegale” o di “irregolare”. Bisognerebbe però anche far notare che le opportunità di cui ha usufruito Silvia dovrebbero essere accessibili a tutti i brillanti e preparati studenti italiani e non solo, come troppo spesso capita nel nostro Paese, ad una sola parte di essi, tipicamente quelli che nascono nelle famiglie “giuste”. Una verifica sulle occupazioni dei figli degli attuali componenti del governo lascerebbe pochi dubbi a riguardo.
L’economista Stefano Zamagni, nell’intervista concessa a Tiscali Notizie, ha chiarito molto bene la natura del problema che ruota attorno alla riforma dell'articolo 18. L'obiettivo non dovrebbe essere “garantire il posto fisso a tutti” ma “garantire il lavoro fisso a tutti”. La mobilità tra diversi lavori e la flessibilità in uscita non sono per definizione “negative” ma a patto che ai giovani, e più in generale ai lavoratori, venga offerta anche una “flessibilità in ingresso” ovvero reali opportunità di impiego che renderebbero non traumatica la perdita del lavoro. Per l'economista bolognese in Italia attualmente queste condizioni non esistono e spingere “sulla flessibilità in uscita” prima di “creare quella in entrata” sarebbe un grosso errore. La priorità, per Zamagni, è perciò quella di creare opportunità da offrire non solo a pochi fortunati ma a tutti i giovani italiani.
Che l’argomento sia delicato lo dimostrano le “marce indietro” dei componenti del governo che hanno provato a fare “prediche” ai giovani italiani parlando da un pulpito privilegiato. Dopo il viceministro al Welfare, Michel Martone, sugli “sfigati che si laureano dopo i 28 anni” e dopo Mario Monti sul posto fisso “monotono” oggi è arrivato il turno del ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri che ieri aveva duramente attaccato i giovani italiani definendoli “fermi come struttura mentale al posto fisso nella stessa città e magari accanto a mamma e papà”. Oggi la Cancellieri ha ammesso “di aver usato una frase infelice” che “è suonata come una mancanza di rispetto”. Il capo del Viminale ha aggiunto che per le generazioni passate le cose erano più semplici perché bastava “studiare e fare i concorsi” perché “c’erano posti pubblici e posti fissi” ma che oggi questo non è più possibile “perché con la globalizzazione la concorrenza è esasperata”.
E' indubbio che la globalizzazione abbia cambiato l’economia ma la lista dei problemi che l’Italia deve affrontare per essere competitiva nell’attuale contesto internazionale è molto lunga. Affermare, come ha fatto Monti, "che le imprese straniere non investono in Italia a causa dell’articolo 18" è una semplificazione che non tiene conto di altri ostacoli che impediscono l’arrivo di capitali esteri come l’eccessiva pressione fiscale, la burocrazia esasperata, la criminalità diffusa e la mancanza di infrastrutture adeguate solo per citare le più rilevanti. La sensazione è che il governo, analogamente a quanto fatto con il decreto “Salva Italia”, voglia far pagare ancora una volta i costi del salvataggio del Paese alla classe sociale dei lavoratori dipendenti con reddito medio basso. La tutela dell’articolo 18 non è solo un “fatto di civilità” come ha detto Susanna Camusso ma è anche una barriera importante per impedire un ulteriore dissolvimento della classe media che ovunque nel mondo rappresenta la più importante garanzia per il mantenimento di uno Stato democratico.
Di Michael Pontrelli,Fonte Tiscali.it
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