sabato 25 febbraio 2012

Soldati e pirati: crisi India-Italia, capolavoro d’ipocrisia

Non sono stati loro a sparare sui pescatori indiani al largo di Kochi, ma rischiano addirittura la pena di morte: se anziché italiani fossero soldati americani, francesi o inglesi, a quest’ora davanti a quel porto ci sarebbe già schierata una portaerei, e l’India non si permetterebbe certo di commettere gli abusi che sta compiendo ai danni del mercantile sequestrato, la Enrica Lexia, e della sua scorta ingiustamente accusata, i “marò” del battaglione San Marco. Lo afferma Gianandrea Gaiani, esperto strategico e direttore di “Analisi Difesa”, in merito alla clamorosa crisi diplomatica esplosa fra Italia e India in seguito al fermo dei due militari italiani, ufficialmente sospettati di aver sparato e ucciso due pescatori indiani dopo averli scambiati per pirati. Collaboratore di svariati quotidiani, da “Libero” al “Sole 24 Ore”, nonché opinionista per Radio Rai e Radio Capital, Gaiani non ha dubbi: anche se I due marò del San Marco fermati in Indiaalcuni dettagli sono ancora da chiarire riguardo all’esatta dinamica dell’incidente del 15 febbraio, risulta che la nave italiana sia stata effettivamente minacciata da pirati attorno alle 12.30 mentre si trovava in acque internazionali a trenta miglia dalla costa, mentre lo scontro di cui sono rimasti vittima i pescatori è avvenuto più di quattro ore dopo, verso il tramonto, e ad appena due miglia da riva, molto lontano dalla rotta del mercantile italiano. Complotto? Probabile, secondo Gaiani: l’India – dice, in un’intervista rilasciata alla rivista “Eurasia” – è ansiosa di proporsi come potenza emergente e non tollera che si sappia che le sue acque sono insicure, infestate da pirati locali, emuli di quelli somali. Una volta uccisi i due pescatori, Delhi deve aver approfittato della presenza nell’area della Enrica Lexia per accusare l’unico Stato che, secondo gli indiani, avrebbe potuto subire, senza ribellarsi, un vero e proprio “processo mediatico” internazionale. Altra prova della «malafede» indiana: finora nessuna autopsia sui corpi e niente esami balistici sui proiettili. Fatale, aggiunge Gaiani, l’errore di ingenuità compiuto dal comandante del mercantile: mai avrebbe dovuto accettare la richiesta indiana di attraccare a Kochi per “fornire chiarimenti”. «Il diritto internazionale parla chiaro: se una nave, di qualunque nazione, in questo caso italiana, viene attaccata o ha un incidente in acque internazionali, vale il diritto di bandiera, e cioè l’inchiesta la fa la legge italiana, non quella del paese più vicino con le sue coste». Imperdonabile, aggiunge Gaiani, anche la superficialità del governo italiano: «Nel momento in cui abbiamo deciso di imbarcare nuclei armati sopra navi mercantili per proteggerle da aggressori esterni, da pirati, bisognava mettere in atto delle procedure per cui una nave mercantile che Gianandrea Gaianiviene attaccata in acque internazionali non si fa invitare da nessun paese ad entrare nelle sue acque territoriali per fornire chiarimenti». Uno dei motivi per cui l’Italia sta mantenendo un atteggiamento “inspiegabilmente” morbido con l’India, aggiunge il direttore di “Analisi Difesa”, sono probabilmente i rapporti economici, che in questo caso pesano in modo incredibilmente unilaterale: «E’ vero che noi abbiamo tanti affari con l’India, ma anche l’India ha tanti affari con noi, ad esempio ha bisogno della nostra tecnologia per costruire la sua portaerei». A pagare il conto, oggi, sono i marines del San Marco imbarcati sulla Enrica Lexia: «Rischiano di essere processati in una situazione senza precedenti, in un paese che peraltro prevede la pena di morte». Che senso ha fare pressioni “umanitarie” sugli Usa perché non applichino la pena capitale, e poi lasciare che i nostri militari vengano interrogati e forse processati da un paese che invece la esegue regolarmente? Quei soldati potrebbero sentirsi «abbandonati da uno Stato che pure li ha mandati in quella missione e che quindi ha il dovere di tutelarli». Oltretutto, con migliaia di militari italiani impegnati all’estero, «sarebbe un pessimo segnale se pensassero di essere sacrificabili per due contratti di export o per ragioni di opportunità diplomatica». Quello delle scorte, aggiunge Gaiani, è un sistema di difesa passiva che protegge le navi ma non risolve ovviamente il problema della pirateria: non elimina i pirati, non li insegue e non dà loro piratila caccia, limitandosi a proteggere solo la singola nave. E’ un sistema efficace ed economico: agli armatori costa meno di una normale polizza assicurativa contro la pirateria. La prassi è consentita dal diritto internazionale: l’Onu autorizza non solo le scorte, ma anche l’inseguimento dei pirati a terra. A monte, il problema nasce col caos esploso in Somalia: «Ci stiamo facendo prendere in giro forse da 4-5 mila somali che sequestrano, spesso uccidendo, usando violenza a dei civili». Secondo Gaiani, «basterebbe la volontà per spazzarli via a cannonate dai mari e dalle coste. Però nessuno lo fa, schiacciati come siamo da logiche politically correct». E dire, conclude con una battuta il direttore di “Analisi Difesa”, che il problema sarebbe risolvibile in 48 ore: «Invece di spendere un paio di miliardi di euro all’anno per navi da guerra che stanno laggiù per far finta di scortare navi mercantili e a far finta di contrastare i pirati, contro i 160 milioni di dollari che i pirati incassano dai riscatti, faremmo prima a dare direttamente in tasca ai pirati 160 milioni di dollari perché la smettano di attaccare le navi mercantili. Almeno spenderemmo meno».
 Fonte Libre/associazione di idee

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