Revelli: naufragio Italia, la sinistra ha abbandonato la nave
Torna un antico fantasma: la povertà. Uno spettro, quello della morte per fame, che la civiltà occidentale si era illusa di aver archiviato per sempre. Ora torna ad affacciarsi, sotto forma di paura, precarietà, indigenza. L’Italia è in piena decadenza, la povertà è in continua crescita e gli italiani sono disorientati: nonostante il vergognoso arricchimento di pochi, i penultimi se la prendono con gli ultimi, mentre la politica ha toccato il fondo e ora si rassegna all’azione dei “tecnici”. Fanno venire i brividi le cifre sciorinate da Marco Revelli nel suo ultimo libro “Poveri, noi”: «Siamo cambiati nell’ultimo quarto di secolo, ci siamo guardati allo specchio e non ci siamo riconosciuti più: un paese, il nostro, sfigurato dal rancore, dall’ostilità reciproca, dalle solitudini, dalla frustrazione, dall’invidia sociale».Deprivazione monetaria ed economica, sicuramente, ma anche deprivazione rispetto a tanti altri beni che non si possiedono più, o si posseggono in misura minore: l’identità, uno status sociale, un sistema di diritti, l’orgoglio della propria appartenenza sociale. Anche avere una rete di relazioni, un buon rapporto con il proprio territorio. Su tutti questi terreni, dice Marco Revelli in una recente intervista realizzata da Vittorio Bonanni per “Liberazione” e ripresa dal blog “Spartaco”, i diversi pezzi della società italiana hanno perso qualcosa. Insomma, siamo paurosamente arretrati: «Abbiamo perso un gran numero di posizioni rispetto ai nostri paesi pari, una ventina di punti percentuale rispetto al nostro posizionamento relativo in Europa: eravamo appunto venti punti sopra la media dell’Europa a 27 all’inizio degli anni ‘90 e siamo ora sul pelo dell’acqua, vicini allo zero. E la cosa peggiore è che questo declino è avvenuto dentro un involucro costruito dalle retoriche dell’ottimismo».Il nostro passato recente è surreale: l’autoproclamazione di una modernizzazione felice, la fantasmagoria dell’ipermodernità. «Come se ci fossimo lasciati alle spalle la zavorra del ‘900 e dunque l’età industriale, l’epoca fordista con tutte le sue caratteristiche, i suoi blocchi sociali, le identità forti, i grandi stabilimenti. E anche le ideologie. Come se, abbandonata quella zavorra, potessimo volare alto nel consumo opulento: senza renderci conto che, invece, stavamo scendendo». E dentro questa forbice, aggiunge Revelli, «cresce la bolla del rancore». Nel libro emerge bene la responsabilità di una classe imprenditoriale quasi pre-moderna, pre-capitalistica, attenta solo ad arricchirsi e poco propensa ad investire. Ma anche la politica ha le sue colpe: non ha neppure visto l’emergere del “working poor”, figura inedita del “povero al lavoro”, né il rapido declassamento della classe media, che «è stato violento soprattutto negli ultimi dieci anni: sono in parte lì i nuovi poveri che danno vita alla cosiddetta “povertà occulta”».
Nuova povertà, «che non si vede perché ci si continua a vestire con gli stessi abiti di prima, della middle class, pur vivendo in una condizione di miseria». E poi i giovani, «che sono i veri massacrati dalla crisi, in particolare negli ultimi anni». Su tutto questo, conferma Revelli, pesa una enorme responsabilità dell’imprenditoria italiana, «forse in Occidente la più avara». Imprenditori che dagli inizi degli anni ‘80 fino alla metà del decennio in corso hanno visto crescere in misura esponenziale i loro profitti, a spese dei salari: «C’è stata una trasmigrazione massiccia di ricchezza collettiva dal monte salari, appunto, ai profitti. Dalle tasche dei lavoratori ai bilanci delle imprese. Parliamo di otto punti di prodotto interno lordo, che vuole dire qualcosa come 120 miliardi di euro ogni anno che non entrano più nelle case di chi lavora».
La data simbolo resta l’autunno del 1980, con la “marcia dei quarantamila” contro lo sciopero alla Fiat: il segno di una rivincita storica del capitale. Da allora le imprese hanno cominciato a guadagnare di più e investire di meno, fino a far scivolare l’Italia in coda alla graduatoria dell’Ocse. «Il degrado del nostro tessuto imprenditoriale fa leva sulla logica del familismo amorale, da microimpresa familiare. Vive di sotterfugi, di espedienti. E vive soprattutto umiliando la propria forza lavoro costringendola a livelli di precarizzazione insopportabili, indecenti». E se l’avarizia degli industriali è la prima colpevole del declino, la politica ne è il perfetto omologo: Berlusconi ha ben incarnato «questa borghesia animata da forme di familismo immorale», ma lo stesso Marchionne «è l’altra faccia di questa medaglia e rappresenta la totale irresponsabilità sociale dell’impresa».
Di fronte a tutto questo, aggiunge Revelli, l’opposizione ha soltanto saputo balbettare, anziché proporre una svolta radicale: «Credo che la sinistra sia uscita dalla società in questo quarto di secolo», e dal novembre del fatidico 1980 «ha incominciato ossessivamente ad interrogarsi su come salvare se stessa dal naufragio del proprio insediamento sociale, su come sopravvivere alla sconfitta dei propri rappresentati». L’unico che ebbe una forte carica di dignità fu Berlinguer, ricorda Revelli, mentre «tutti i suoi colonnelli consumarono il proprio 8 settembre con una fuga ingloriosa», ed era un management «che si stava già degradando». Un triste parallelo, la “nuova Fiat” di Romiti: «Tutti la presentavano come il rinnovato miracolo e invece era l’inizio della fine dell’industria torinese per eccellenza, con l’avvio della finanziarizzazione e l’abbandono della centralità della produzione».
La sinistra? Quella dell’ex Pci «non riusciva neppure a leggere i processi sociali in corso ed è stata tutta dentro la grande narrazione degli altri: l’Italia con cui pensava di misurarsi era quella raccontata da Berlusconi, quella di Publitalia», mentre la sinistra radicale «si chiudeva dentro le autorappresentazioni precedenti senza a sua volta tentare di misurarsi con le sfide del postfordismo, pensando che alla diserzione degli altri bastasse contrapporre le vecchie maniere». Per cui, l’Italia è cambiata senza una funzione di autorappresentazione di quello che avveniva, senza che filtrasse nella sfera della politica anche solo la nozione di cosa stava avvenendo: «Un declino senza racconto». Peggio: «Un declino che si è consumato nel racconto apologetico dell’ipersviluppo mentre si consumava una decadenza».
Se la sinistra si è comportata «come il comandante che nel naufragio abbandona la nave per primo invece che per ultimo», ora serve il coraggio di pronunciare la parola “redistribuzione” e contrastare il sistema dei “sottouomini” che non osano più rivendicare diritti elementari: «Questa guerra tra poveri, o dei penultimi contro gli ultimi, la disinneschi se fai ripartire l’ascensore sociale, se ricominci a pensare alla possibilità di togliere ai primi per dare agli ultimi». Altrimenti non se ne esce, vinceranno «le retoriche del disumano» nutrite di odio selettivo, come quello che maneggia la Lega: «Hai perso i diritti, dicono ai loro cittadini, ma tu sei un uomo mentre il rom non lo è. Magari hai il mutuo che ti scade, i tuoi figli non hanno un posto all’asilo, ma la colpa è sempre di chi sta sotto di te, mai di chi ti sta sopra».
Fonte Libre /associazione di idee
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