Non
sono un sostenitore delle famose tre “I” (impresa, informatica,
inglese), che qualche anno fa ci furono spacciate come la condizione
indispensabile della via al successo (economico, naturalmente). Ritengo
anzi che vengano prima altre lettere di molte altre parole che
dovrebbero avere la precedenza: la “C” di “cultura”, la “S” di
“solidarietà” e di “sociale”, la “R” di “rispetto”, eccetera. Ma,
tralasciando questo discorso, che ci porterebbe lontano, mi vorrei
soffermare su quella terza “I”, quella dell’inglese, che dovrebbe
spianarci la via al successo.
Premetto che ritengo giusto che si impari l’inglese,
esattamente come è giusto che si imparino altre lingue. Ma quell’inglese
che si va diffondendo in funzione di lingua internazionale è una lingua
ben lontana da quella di Shakespeare, di Milton, di Eliot, di Joyce e
di tutti gli altri grandi scrittori di lingua inglese che hanno
arricchito con le loro opere la letteratura mondiale.
L’inglese che ci viene proposto e imposto come lingua
di comunicazione transnazionale è una sorta di codice piú o meno
convenzionale che viene identificato con il nome di Globish (da “Global
English”, inglese globale). È un pidgin che viene balbettato in
campo internazionale, con il sorrisetto ironico di superiorità di
coloro che sono di madrelingua inglese (o americana).
Spesso i sostenitori del Globish, codice artificiale,
sono gli stessi che cercano di screditare l’esperanto bollandolo come
lingua artificiale, fatta a tavolino, e quindi perciò – chissà perché –
inadatta alla funzione per cui è nata.
Premesso che tutte le lingue sono artificiali, perché
non sono una componente biologica dell’individuo, ma sono sempre insiemi
di parole inventate dall’uomo, devo dire che la differenza tra il
Globish e l’esperanto sta nel fatto che il primo è comunque difficile
sia dal punto di vista fonetico, sia dal punto di vista grammaticale e
il secondo è facilissimo. Il primo è la lingua presa a prestito da
altri, che ne rimangono i padroni, il secondo può essere seconda lingua
di tutti, mettendo tutti sullo stesso piano. Il primo è invadente e
fagocitante, il secondo è discreto e disponibile.
A questo proposito, è sotto gli occhi di tutti la
corruzione in accelerazione costante della nostra bella lingua. È
l’inglese – l’inglese dei fiorai che vendono “flowers” e dei calzolai che vendono “shoes” –
che sta corrompendo la nostra lingua. E non solo quando si tratti di
oggetti nati da tecnologie provenienti dagli Stati Uniti (computer,
scanner, ecc.), ma anche per oggetti, ambienti, situazioni, occasioni,
dove non ce ne sarebbe assolutamente la necessità. Basta entrare in un
ufficio postale, per rendersi conto che l’inglese sta sopraffacendo
l’italiano: “postepay”, “posteself”, “servizi business”, “posteshop”,
“news”, “contact center”, “posta pick up”, ecc. ecc.
Osservate l’intestazione del cedolino dello stipendio. Nel radioso presente americanofono, anche il patrio Ministero delle Finanze si organizza in Services. Una volta si diceva: “Direzione”, “Ripartizione”, “Ufficio”, “Dipartimento”. Ora non piú: questa è preistoria. Non
sto ad elencare i vari “tickets” (e gli obbrobriosi derivati come
“ticketteria” per “biglietteria”), “Welfare” per “Stato sociale”,
“nomination”, dove bastava “nomina”, “magazine” per “rivista”, “privacy”
per “riservatezza”, perché sono sotto gli occhi di tutti. Ormai
l’italiano è diventato “itanglese”, anzi: “itanglish”. E in futuro gli
“italians” saranno tutti globishizzati. Con buona pace di Dante e
Manzoni.
Amerigo Iannacone
Fonte: amerigoiannacone.wordpress.com
Tratto da Il Foglio Volante n. 10/2007
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