L’indecoroso epilogo della “rivoluzione” leghista, scivolata dalle valli del Nord nella bambagia governativa di Roma, e poi giù fino al paradiso speculativo della Tanzania, deturpa irrimediabilmente la biografia di Umberto Bossi. Il leader politico che si pretendeva addirittura fondatore di una nazione – dice Gad Lerner – viene accusato ora di avere usufruito di soldi pubblici, denaro non contabilizzato, anche per sostenere i costi della sua famiglia: il suo vero punto debole, da quando il Senatùr «s’è adoperato nel tentativo di perpetuare il suo carisma per via dinastica nell’inadeguata figura del figlio Renzo». Proprio lui che aveva fatto della sobrietà popolana la sua cifra esistenziale, continua Lerner su “Repubblica” il 4 aprile, avrebbe commesso leggerezze mai digerite dalla base militante, come la casa in Sardegna intestata al sindacato padano di cui è segretaria la sua “badante” Rosi Mauro.
Addio alla Lega “dura e pura”, pronta a mettere alla frusta la vecchia casta di Tangentopoli. Fine di un mito: prima la stagione berlusconiana coi compromessi delle “leggi ad personam”, tutte votate “turandosi il naso”, e ora l’inaudita tempesta giudiziaria che colpisce il Carroccio proprio quando è tornato all’opposizione, contro la maggioranza-ombra formata da Pd e Pdl che sostengono il “governo dei banchieri”. Per Lerner, rimarrà scolpito come nemesi storica l’atto di ribellione compiuto da un militante dell’hinterland milanese che il 23 gennaio scorso ha presentato il suo esposto alla Procura contro l’accumulo disinvolto di risorse pubbliche, i famigerati rimborsi elettorali, da lui considerato scandaloso. Fuori tempo massimo anche Roberto Maroni, che per “fare pulizia” nel partito ha chiesto la rimozione «del già screditato tesoriere Francesco Belsito». Possibile che quand’era al Viminale «non disponesse degli strumenti necessari a verificare per tempo la spregiudicatezza dell’uomo preposto a gestire le finanze della Lega?».
«Anziché scagliarsi contro Roberto Saviano che denunciava le relazioni pericolose intrattenute da alcuni politici nordisti con le cosche calabresi – continua Lerner – non sarebbe toccato a Maroni per primo fare la pulizia che tardivamente invoca?». Nel Comitato amministrativo federale della Lega Nord, insieme all’indagato Belsito, siedono due grossi calibri come Roberto Castelli e Piergiorgio Stiffoni: entrambi, l’8 marzo scorso, dichiararono di aver esaminato accuratamente il bilancio del partito senza trovarvi alcuna irregolarità, confermando inoltre piena fiducia al presidente del Consiglio regionale lombardo, Davide Boni, inquisito per corruzione. «Già avevano mentito, negando che la Lega avesse effettuato investimenti speculativi in Tanzania; investimenti per milioni di euro confermati viceversa ieri dallo stesso Belsito», scrive Lerner. «Con quale credibilità i dirigenti leghisti possono proclamarsi adesso “parte lesa”?».
La vetusta insinuazione di una “giustizia a orologeria” che si accanirebbe contro un partito coraggioso ritornato all’opposizione, aggiunge l’editorialista e conduttore televisivo, difficilmente commuoverà un’opinione pubblica sbalordita dalle cifre accumulate grazie a una legge ingiusta. Legge che «permette a ristrette oligarchie che si sottraggono a ogni verifica democratica (la Lega Nord non tiene il suo Congresso federale da ben dieci anni, in barba allo Statuto) di arricchirsi spendendo molto meno di quel che incassano. E di amministrare in totale opacità queste risorse, con rendiconti irregolari». Proprio questo induce la magistratura a ipotizzare per la prima volta l’accusa di truffa ai danni dello Stato, visto che si tratta pur sempre di soldi pubblici.
«Nessuno può sognare più un ritorno alla Lega delle origini», insiste Lerner. «Lo sa bene per primo Roberto Maroni, che ora resta in disparte nell’attesa di un passo indietro di Umberto Bossi, confidando che l’apparato leghista lo riconosca quale legittimo successore», anche se ha commesso l’errore tattico di «offrire copertura a Davide Boni, evitando di pretenderne le dimissioni». Il gruppo dirigente della Lega è composto da quadri giunti alla quarta, quinta legislatura: «Un ceto di capipartito che ormai ha ben poca credibilità quando sollecita le pulsioni dell’antipolitica nell’elettorato». Lo stesso Maroni rischia di rimanere travolto dalle macerie di un movimento che non è ancora riuscito a rinnovare. «Fa paura il vuoto politico evidenziato dagli scandali che si susseguono nel finanziamento pubblico dei partiti, da Lusi a Belsito». Nei giorni scorsi, sulla spianata di Pontida, una mano sconosciuta aveva corretto l’enorme scritta “Padroni a casa nostra” in “Ladroni a casa nostra”. «De profundis. Solo che, uno scandalo dopo l’altro, un partito azzoppato dopo l’altro, anche la democrazia rappresentativa rischia di uscirne mortalmente ferita».
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