Dopo aver pubblicato il post che denunciava le eccessive ed assurde spese delle Province, mi sembrava doveroso documentare per par conditio, anche quelle delle Regioni .
I governatori di queste ultime,quando si tratta di dar conto ai cittadini circa gli innumerevoli disservizi (sanitari,infrastrutturali,sociali etc) o dei mancati pagamenti alle aziende fornitrici ,si scagliano contro il governo di turno che conferirebbe loro sempre più incarichi e meno fondi. Ma, leggendo l'articolo che segue, risulta evidente che se le risorse fossero utilizzate per il perseguimento del bene comune, non ci sarebbe bisogno di tartassare i cittadini con ulteriori e continui ritocchi delle addizionali ,pur seguitando a fornire loro disservizi e sperequazioni, facendo così aumentare il malcontento, la rabbia e spesso la disperazione che spinge anche a gesti estremi!
"Buona" lettura !
di SERGIO RIZZO - GIAN ANTONIO STELLA
Ben 454 mila euro per la Zelkova!». Letta la notizia, i siciliani
hanno pensato: «Deve essere una slava del giro delle Olgettine». Macché:
è una pianta rara che la Regione vuol tutelare iniziando con l’assumere
(«appurata l’esiguità di personale in organico»: sic) un consulente da
150 mila euro. Fulgido esempio di come le Regioni, in nome
dell’autonomia, siano spesso sorde agli appelli a stringere la cinghia.
Scrive Raffaele Lombardo sul suo blog che quella varata giorni fa «è una
finanziaria di straordinario rigore». Sarà… Ma certo gli stessi
giornali isolani denunciano da settimane come l’andazzo sia sempre lo
stesso.
Ed ecco la decisione di salvare il Cefop (uno dei carrozzoni della
«formazione professionale» che da decenni ingoiano da 250 a 400 milioni
l’anno dando lavoro a circa ottomila formatori pari al 46% del totale
nazionale) seguendo il modello Alitalia con la creazione d’una «bad
company» su cui caricare i debiti pari a 82 milioni per dare vita a una
nuova società «vergine » da sfamare subito con altri 29 milioni e mezzo.
Ecco la scelta di chiedere al governo di usare 269 milioni di fondi Fas
(destinati alle aree sottosviluppate) per tappare una parte della
voragine sanitaria. Ecco l’idea di accendere un nuovo mutuo da 500
milioni. Ecco la delibera che autorizza i Comuni, nel caso siano in
grado di farsene carico (aria fritta elettorale: le casse comunali sono
vuote) ad assumere 22 mila precari in deroga ai divieti nazionali. E via
così.
Fino alle storie più stupefacenti, come quella di Zorro, il vecchio
cavallo donato dal governatore a Villa delle Ginestre, dove curano i
pazienti con lesioni spinali, perché sia usato per l’ippoterapia e messo
a pensione a 2.335 euro al mese (il doppio di quanto costa il
trattamento di un purosangue compresa la fisioterapia in piscina…) senza
che ancora sia stata comprata, per i malati, manco la sella. Passi lo
Stretto risalendo verso nord e leggi sul Corriere di Calabria che Pietro
Giamborino, dopo una sola legislatura da consigliere regionale, è
appena andato in pensione a 55 anni (rinunciando al 5% del vitalizio),
dopo che milioni di italiani hanno visto allontanarsi il giorno
dell’agognato ritiro dal lavoro fino a 67 anni. O che per le «spese di
rappresentanza» del presidente dell’assemblea regionale Francesco
Talarico sono stati stanziati per il 2012 la bellezza di 185 mila euro.
Più del doppio di quanto costò ai tedeschi nel 2006, sotto quella voce,
il presidente della Repubblica Horst Köhler.
Risali ancora verso nord e scopri che la maggioranza di destra che
governa la Campania si è appena liberata dell’ingombro di dover trovare i
soldi prima di fare una legge. C’erano voluti 9 anni per mettere dei
vincoli seri. Nel 2002, ai tempi del primo Bassolino, era stata fatta
una norma che imponeva di verificare, prima di ogni atto, la copertura
finanziaria. Ma non era mai diventata operativa. Finalmente, nel marzo
2011, era stata votata l’istituzione presso la giunta regionale di un
ufficio delegato a controllare la copertura finanziaria delle proposte
arrivate in Consiglio. L’unico argine possibile ai deliri clientelari ed
elettoralistici. Giorni fa, a dispetto della crisi e dei moniti del
governo, ecco la retromarcia: grazie al voto di 24 consiglieri, le
proposte di legge regionale non dovranno più avere il «visto di
conformità» della struttura dedicata a fare le verifiche finanziarie.
Per avviare l’iter di una legge, magari spendacciona, basterà una
«relazione tecnica » degli «uffici della giunta regionale competenti in
materia di finanze e bilancio». Tutta un’altra faccenda.
Gli autori del blitz? Gli stessi sostenitori, come dicevamo, del
governatore Stefano Caldoro che proprio su quel filtro abolito contava
per arginare gli incontenibili rivoli di spesa. Caldoro, preoccupato per
i conti, è passato al contrattacco con la proposta di introdurre anche
nello statuto regionale il principio del pareggio di bilancio appena
entrato nella Costituzione. Ce la farà? Mah… Assomiglia tanto a una
lotta contro i mulini a vento.
«Autonomia!», insorgono in coro i governatori tutte le volte che lo
Stato centrale prova a sfiorare le loro prerogative. E sulla Consulta
piovono valanghe di cause, quasi sempre coronate da successo. Ricorsi
contro il limite di cilindrata delle auto blu. Contro la privatizzazione
dei servizi pubblici locali. Contro i pedaggi sulle strade dell’Anas.
Contro l’Imu. Per non dire delle sollevazioni contro i tagli ai Consigli
regionali: sono addirittura undici le Regioni che hanno contestato
davanti alla Corte Costituzionale l’articolo 14 della manovra dello
scorso agosto, l’ultima firmata da Giulio Tremonti, che imporrebbe alle
loro assemblee, dalle prossime elezioni, una cura dimagrante di 343
poltrone. Undici. Motivazione? «È assolutamente necessario contrastare
l’ondata di provvedimenti indirizzati contro le nostre prerogative», ha
spiegato il governatore della Sardegna, Ugo Cappellacci. Il guaio è che,
rivendicando stizzite questa autonomia («tocca semmai a noi tagliare le
Province, tocca semmai a noi tagliare le indennità, tocca semmai a noi
tagliare le poltrone…») tutte e venti le Regioni si sono trasformate in
zone franche, dove la spesa pubblica va alla deriva.
La prova? Fra 2000 e 2009, mentre il Pil pro capite restava fermo per
poi addirittura arretrare di cinque punti, le uscite delle Regioni
italiane sono lievitate da 119 a 209 miliardi di euro. Ormai
rappresentano più di un quarto di tutta la nostra spesa pubblica. La
crescita, dice la Cgia di Mestre, è stata del 75,1%: un aumento in
termini reali, contata l’inflazione, del 53%. Oltre il doppio del pur
astronomico incremento reale (25%) registrato nello stesso periodo dalla
spesa pubblica complessiva, passata al netto degli interessi sul debito
da 581 a 727 miliardi. Parliamo di 89,7 miliardi «in più» ogni anno, di
cui appena la metà, ovvero 45,9 miliardi, addebitabili a quella sanità
che rappresenta la voce più problematica dei bilanci regionali. In testa
tra gli enti che più hanno accelerato c’è l’Umbria, dove le spese sono
salite del 143%, seguono l’Emilia-Romagna (+125%), la Sicilia (+125,7%),
la Basilicata (115,2%), il Piemonte (+91,8%) e la Toscana (+84,6%).
Fosse aumentata così anche la nostra ricchezza, saremmo a posto. Il
diritto (giusto) all’autonomia può giustificare certi bilanci colabrodo?
È accettabile che la spesa sanitaria, dal 1978 di competenza regionale,
presenti qua e là differenze abissali? O che ogni lombardo sborsi per
il personale regionale 21 euro l’anno contro i 70 della Campania, i 173
del Molise o i 353 della Sicilia tanto che se tutte le Regioni si
allineassero ai livelli lombardi risparmieremmo 785 milioni l’anno?
Possiamo ancora permetterci le cosiddette «leggi mancia» che ad esempio
hanno visto il Lazio spendere con 250 delibere a pioggia (tutte finite,
dice l’Espresso, nel mirino della Corte dei Conti) qualcosa come 8,6
milioni di euro per iniziative che andavano dalla Rievocazione storica
della battaglia di Lepanto a Sermoneta alla Sagra del carciofo di Sezze?
Per non dire dei progetti faraonici, delle società miste nate a volte
solo per distribuir poltrone, delle megalomanie. Venti Regioni, ventuno
sedi di rappresentanza a Bruxelles: solo quella del Veneto è costata 3,6
milioni di euro. Venti Regioni, 157 piccole «ambasciate» all’estero,
dagli Stati Uniti alla Tunisia. Venti Regioni, centinaia di sedi e
immobili sparsi per tutta Italia.
Spese inenarrabili. Un caso? Denunciano quelli di Sel che oltre alle
sedi istituzionali la Regione Lazio dispone di 13 fabbricati a uso
residenziale e 367 appartamenti.Malgrado ciò, spende ogni anno 20
milioni per affittare altri immobili. E ha deciso di dare il via a
lavori di ampliamento della sede della Pisana, con la costruzione di due
nuove palazzine. Costo previsto: dieci milioni. Una spesa
indispensabile? Ed era indispensabile, di questi tempi, investire 16,3
milioni di euro come ha fatto il Consiglio regionale del Piemonte per
rilevare e ristrutturare la ex sede torinese del Banco di Sicilia? O
stanziare 87 milioni per la nuova sede del Consiglio regionale della
Puglia, appaltata nello scorso mese di agosto? O spenderne addirittura
570 per la nuova sede della Regione Lombardia, una reggia con tanto di
eliporto e di foresteria per il governatore costata 127 mila euro di
soli arredamenti?
Fonte: Corriere della Sera
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