In Insidious (2011), film horror
di James Wan, ad essere infestata non è (più) la casa in cui si sono
trasferiti i coniugi Lambert, ma il corpo di Dalton, uno dei loro tre
figli. Il bambino è in grado di compiere viaggi astrali, raggiungendo un
mondo spiritico, abitato da presenze maligne, chiamato Altrove: un mondo in cui, nel corso di uno di questi viaggi, rimane intrappolato. Mentre è in coma, nel mondo reale.
In Italia, c’è un posto sprofondato alle 3,32 di una notte di 3 anni fa, nel suo e nostro Altrove: è una città al centro esatto dello spazio e del tempo italiano. È L’Aquila. Uno dei più bei contesti urbani e umani del nostro Paese, una città con una storia antichissima e nobilissima, una delle comunità più sane della nazione ha subìto un trauma gravissimo. Più ancora del terremoto, il trauma consiste nel suo totale abbandono da parte degli altri italiani. Di quelli che si sentono al sicuro; di quelli che dicono; di quelli che hanno voltato la testa dall’altra parte, ignorando quello che sta accadendo (o meglio: che non sta accadendo) a L’Aquila, e scegliendo di credere che tutto si sia risolto.
O peggio: che la città stessa non esista più (questa è del resto solo l’ultima delle rimozioni/negazioni che attraversano come onde sismiche l’immaginario collettivo del Paese, disegnandone quasi una storia alternativa e sommersa, più vera del vero: per rimanere solo agli ultimi decenni, la violenza politica degli anni Settanta, Mani Pulite e le stragi mafiose dei primi anni Novanta, il G8 a Genova del 2001…). Qui ed ora, c’è una popolazione abbandonata completamente a se stessa, al suo lutto e alla disperazione di non avere futuro né prospettive. Questa popolazione esiste, vive con angoscia e dolore e rabbia e frustrazione queste giornate e questi mesi, nella completa indifferenza generale. Questa popolazione è forse, quasi certamente, più viva del popolo che le sta attorno, e che non la percepisce neanche, che non le dimostra alcuna solidarietà e attenzione e generosità (ma quando, esattamente, siamo diventato così cattivi e disumani? Quando?)
L’incredibile – roba veramente da fantascienza distopica, ma sul serio – è purtroppo successo, superando le più feroci fantasie ballardiane (come sempre, del resto, accade in un Paese che si configura regolarmente come il mondo alla rovescia, in cui i cattivi vincono sempre e l’ingiustizia regna indisturbata). Il centro storico è quasi nelle stesse condizioni di tre anni fa: anzi, in condizioni che peggiorano giorno dopo giorno, perché alla distruzione e alla devastazione istantanea del sisma si aggiungono progressivamente, inesorabilmente i danni provocati dalle intemperie, dall’incuria, dal degrado. Salvatore Settis – che insieme allo storico dell’arte Tomaso Montanari e al direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici del Molise Gino Famiglietti ha incontrato, il 13 marzo, la città e la sua sconvolgente distopia realizzata – ha definito L’Aquila “una Pompei del XXI secolo”.
Questo disastro ha dei responsabili precisi: e non sono (solo) i fattori naturali. Chi doveva decidere, agire e vigilare che si agisse - correttamente, rapidamente e con
efficacia - non l’ha fatto. Molto semplicemente. L’Aquila ha così prefigurato il crollo dell’Italia intera, avvenuto negli ultimi tre anni: la paralisi de L’Aquila è la paralisi della nazione intera; la post-apocalisse de L’Aquila è la post-apocalisse di tutti noi. Indistintamente. L’Aquila è al tempo stesso metafora e prefigurazione dell’intero Paese.
Perché tutto ciò a cui si assiste qui non è altro, in definitiva, che il nostro futuro. Di tutti noi, italiani. In diretta - e in anteprima. Se non ci impegneremo, da subito e
con tutte le nostre forze, ad invertire la rotta del progetto collettivo che ci riguarda (sinistramente animato da un’assenza completa di progettualità ma guidato, come in automatico, dagli stessi schemi mentali e culturali che ci hanno portato alla rovina) questo è precisamente ciò che ci attende. Né più, né meno.
Montanari ha chiarito molto bene che cosa significa precisamente ciò che avviene nella città che muore: “Piero Calamandrei ha scritto che ‘una parte della nostra Costituzione è una polemica contro il presente’: ecco, camminare per l’Aquila permette di capire che l’articolo più polemico è, oggi, l’articolo 9. All’Aquila, infatti, la Repubblica ha sistematicamente tradito se stessa, rinunciando radicalmente a 'tutelare il patrimonio storico e artistico della nazione italiana’. (…) …continuare a gettare denaro ed energia nella spensierata industria delle mostre e dei Grandi Eventi è ora doppiamente criminale: proprio come organizzare una festa da ballo mentre il cadavere di un fratello giace nella
stanza accanto. (…) L’Aquila non è solo la metafora dell’Italia, rischia di rappresentarne anche il futuro: quello di un Paese che affianca all’inarrestabile stupro cementizio del territorio la distruzione, l’alienazione, la banalizzazione del patrimonio storico monumentale, condannando così all’abbrutimento morale e civile le prossime generazioni” (L’Aquila non c’è più ed è il futuro dell’Italia, “Saturno-Il Fatto Quotidiano”, 16 marzo 2012, p. VII).
Perciò, così come il degrado della nazione trova la sua orribile espressione - estremizzata, incontrovertibile, crudelissima - nel buco nero economico, informativo, operativo e politico che ha inghiottito quella che è oggi l’autentica e sola capitale d’Italia (la zona oscura, sana e autenticamente dolente di una società che continua, purtroppo, a vivere in larga parte nel territorio della rappresentazione), anche ogni ipotesi di ricostruzione e di “resurrezione” dell’Italia dovrà, inevitabilmente, passare dalla ricostruzione e dalla resurrezione de L’Aquila e dei suoi abitanti. Ricostruzione fisica e identitaria, culturale e materiale. La post-apocalisse è, sempre e comunque, il tempo di un nuovo racconto: dopo la fine, configura un (altro) inizio.
Fonte:Tiscali.it
In Italia, c’è un posto sprofondato alle 3,32 di una notte di 3 anni fa, nel suo e nostro Altrove: è una città al centro esatto dello spazio e del tempo italiano. È L’Aquila. Uno dei più bei contesti urbani e umani del nostro Paese, una città con una storia antichissima e nobilissima, una delle comunità più sane della nazione ha subìto un trauma gravissimo. Più ancora del terremoto, il trauma consiste nel suo totale abbandono da parte degli altri italiani. Di quelli che si sentono al sicuro; di quelli che dicono; di quelli che hanno voltato la testa dall’altra parte, ignorando quello che sta accadendo (o meglio: che non sta accadendo) a L’Aquila, e scegliendo di credere che tutto si sia risolto.
O peggio: che la città stessa non esista più (questa è del resto solo l’ultima delle rimozioni/negazioni che attraversano come onde sismiche l’immaginario collettivo del Paese, disegnandone quasi una storia alternativa e sommersa, più vera del vero: per rimanere solo agli ultimi decenni, la violenza politica degli anni Settanta, Mani Pulite e le stragi mafiose dei primi anni Novanta, il G8 a Genova del 2001…). Qui ed ora, c’è una popolazione abbandonata completamente a se stessa, al suo lutto e alla disperazione di non avere futuro né prospettive. Questa popolazione esiste, vive con angoscia e dolore e rabbia e frustrazione queste giornate e questi mesi, nella completa indifferenza generale. Questa popolazione è forse, quasi certamente, più viva del popolo che le sta attorno, e che non la percepisce neanche, che non le dimostra alcuna solidarietà e attenzione e generosità (ma quando, esattamente, siamo diventato così cattivi e disumani? Quando?)
L’incredibile – roba veramente da fantascienza distopica, ma sul serio – è purtroppo successo, superando le più feroci fantasie ballardiane (come sempre, del resto, accade in un Paese che si configura regolarmente come il mondo alla rovescia, in cui i cattivi vincono sempre e l’ingiustizia regna indisturbata). Il centro storico è quasi nelle stesse condizioni di tre anni fa: anzi, in condizioni che peggiorano giorno dopo giorno, perché alla distruzione e alla devastazione istantanea del sisma si aggiungono progressivamente, inesorabilmente i danni provocati dalle intemperie, dall’incuria, dal degrado. Salvatore Settis – che insieme allo storico dell’arte Tomaso Montanari e al direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici del Molise Gino Famiglietti ha incontrato, il 13 marzo, la città e la sua sconvolgente distopia realizzata – ha definito L’Aquila “una Pompei del XXI secolo”.
Questo disastro ha dei responsabili precisi: e non sono (solo) i fattori naturali. Chi doveva decidere, agire e vigilare che si agisse - correttamente, rapidamente e con
efficacia - non l’ha fatto. Molto semplicemente. L’Aquila ha così prefigurato il crollo dell’Italia intera, avvenuto negli ultimi tre anni: la paralisi de L’Aquila è la paralisi della nazione intera; la post-apocalisse de L’Aquila è la post-apocalisse di tutti noi. Indistintamente. L’Aquila è al tempo stesso metafora e prefigurazione dell’intero Paese.
Perché tutto ciò a cui si assiste qui non è altro, in definitiva, che il nostro futuro. Di tutti noi, italiani. In diretta - e in anteprima. Se non ci impegneremo, da subito e
con tutte le nostre forze, ad invertire la rotta del progetto collettivo che ci riguarda (sinistramente animato da un’assenza completa di progettualità ma guidato, come in automatico, dagli stessi schemi mentali e culturali che ci hanno portato alla rovina) questo è precisamente ciò che ci attende. Né più, né meno.
Montanari ha chiarito molto bene che cosa significa precisamente ciò che avviene nella città che muore: “Piero Calamandrei ha scritto che ‘una parte della nostra Costituzione è una polemica contro il presente’: ecco, camminare per l’Aquila permette di capire che l’articolo più polemico è, oggi, l’articolo 9. All’Aquila, infatti, la Repubblica ha sistematicamente tradito se stessa, rinunciando radicalmente a 'tutelare il patrimonio storico e artistico della nazione italiana’. (…) …continuare a gettare denaro ed energia nella spensierata industria delle mostre e dei Grandi Eventi è ora doppiamente criminale: proprio come organizzare una festa da ballo mentre il cadavere di un fratello giace nella
stanza accanto. (…) L’Aquila non è solo la metafora dell’Italia, rischia di rappresentarne anche il futuro: quello di un Paese che affianca all’inarrestabile stupro cementizio del territorio la distruzione, l’alienazione, la banalizzazione del patrimonio storico monumentale, condannando così all’abbrutimento morale e civile le prossime generazioni” (L’Aquila non c’è più ed è il futuro dell’Italia, “Saturno-Il Fatto Quotidiano”, 16 marzo 2012, p. VII).
Perciò, così come il degrado della nazione trova la sua orribile espressione - estremizzata, incontrovertibile, crudelissima - nel buco nero economico, informativo, operativo e politico che ha inghiottito quella che è oggi l’autentica e sola capitale d’Italia (la zona oscura, sana e autenticamente dolente di una società che continua, purtroppo, a vivere in larga parte nel territorio della rappresentazione), anche ogni ipotesi di ricostruzione e di “resurrezione” dell’Italia dovrà, inevitabilmente, passare dalla ricostruzione e dalla resurrezione de L’Aquila e dei suoi abitanti. Ricostruzione fisica e identitaria, culturale e materiale. La post-apocalisse è, sempre e comunque, il tempo di un nuovo racconto: dopo la fine, configura un (altro) inizio.
Fonte:Tiscali.it
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