sabato 17 marzo 2012

Ricette sbagliate: i dati dimostrano che la produttività cala col lavoro flessibile

di Gabriele Repaci,laureando in Filosofia all’Università degli Studi di Milano (Geopolitica)
Negli ultimi mesi il dibattito politico nel nostro paese si è concentrato principalmente sulla riforma del mercato del lavoro avanzata dall’attuale governo, che vorrebbe eliminare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (il quale prevede il reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa). Il Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Monti ha affermato che l’articolo 18 scoraggerebbe gli investimenti e che di conseguenza i giovani devono abituarsi all’idea di non avere un posto fisso per tutta la vita. La tesi di fondo dell’attuale esecutivo è che problemi come la disoccupazione e la mancanza di investimenti siano causati da una rigidità del mercato del lavoro.
A ben vedere tale idea non è molto originale. Si tratta della riproposizione della tesi della scuola neoclassica o marginalista secondo la quale le imprese assumono nuovi lavoratori solo se la loro produttività marginale è maggiore al costo marginale dell’assunzione corrispondente al salario reale (ovvero il salario espresso in termini di potere d’acquisto effettivo). In altri termini, se i lavoratori accettano un salario conforme alla loro produttività sarebbero certamente assunti. Secondo tale punto di vista la disoccupazione dipende unicamente da una scelta individuale del lavoratore, il quale magari si dichiara indisponibile ad accettare un salario conforme alla sua produttività; oppure è imputabile all’azione dei sindacati, i quali impediscono che i salari si adeguino al livello della produttività marginale rendendo impossibile per le aziende ridurre i propri costi.
Ad esempio, nella Teoria della disoccupazione (1933) l’economista neoclassico Arthur Cecil Pigou sostenne che la disoccupazione di massa degli anni ’30 era dovuta al fatto che i sindacati si opponevano al calo delle retribuzioni. Così facendo, asseriva Pigou, essi impedivano il riequilibrio tra salari e produttività marginale del lavoro che sarebbe stato necessario per indurre le imprese ad assumere nuovi lavoratori. In tal senso, egli arrivò addirittura a nobilitare la figura del crumiro, sostenendo che il suo comportamento, fiaccando i sindacati e rendendo i salari flessibili verso il basso, avrebbe prima o poi favorito il raggiungimento dell’equilibrio di pieno impiego. Tale tesi fu già criticata a suo tempo da Keynes il quale sostenne che «non è chiaramente sostenuta dai fatti l’opinione secondo cui la disoccupazione che caratterizza uno stato di depressione sia dovuta al rifiuto da parte dei lavoratori di accettare una riduzione dei salari monetari. […] I lavoratori non sono affatto più esigenti nella depressione che nella prosperità, al contrario [...] Questi fatti dell’esperienza costituiscono un primo motivo per mettere in dubbio l’adeguatezza dell’analisi classica»¹.
La Grande Crisi confermò l’affermazione dell’esimio economista britannico. Infatti, nonostante i salari a causa della crisi continuassero a scendere, non veniva registrato nessun tipo di miglioramento dal punto di vista occupazionale. In epoca più recente l’OCSE ha pubblicato un rapporto² nel quale dichiara che non sembra sussistere alcuna relazione empiricamente fondata tra livello di flessibilità e volume totale dell’occupazione. Nel documento si può leggere infatti che «l’impatto dell’EPL [Employment Protection Legislation, cioè l’indice di protezione dei lavoratori calcolato dall’OCSE Ndr] sulla disoccupazione aggregata è a priori ambiguo, e può essere individuato soltanto dall’indagine empirica» e che «i numerosi studi empirici condotti su questo tema portano a risultati contrastanti, e per di più la loro solidità è stata messa in dubbio»³.
Oltre a non avere sortito alcun effetto dal punto di vista dell’occupazione, le riforme del mercato del lavoro degli ultimi 15 anni, portate avanti sia dai governi del centrodestra sia da quelli del centrosinistra, hanno comportato un calo della produttività del lavoro come dimostrato da uno studio condotto dal Fondo Monetario Internazionale⁴. La motivazione è molto semplice. Se il lavoratore deve pensare a come poter trovare un nuovo contratto di lavoro prima della scadenza di quello vigente è poco motivato sul lavoro: non dispone di tempo per la formazione, né l’impresa ha alcun interesse a fornirgliela e soprattutto lascia l’impresa prima di poter acquisire quelle esperienze dalle quali dipende la produttività del lavoro. Ci si potrebbe allora chiedere, essendo stato ampiamente dimostrato che non esiste alcuna correlazione fra aumento della flessibilità e crescita dell’occupazione e che anzi questa flessibilità ha anche comportato un calo della produttività, a cosa è servita la precarizzazione del lavoro compiuta negli ultimi 15 anni. E soprattutto perché ci si ostina a proseguire su questa strada?
Anche in questo caso la risposta è semplice. Infatti mentre non esiste alcuna relazione tra aumento della flessibilità/precarietà e quello dell’occupazione, è invece dimostrato che ad un aumento della flessibilità faccia seguito una minor crescita dei salari in termini reali. In Italia siamo di fronte a un capitalismo composto da piccole, anzi piccolissime, imprese, caratterizzato da una bassa crescita della produttività e da una perdita di competitività e da una conseguente tendenza ad accumulare deficit con l’estero. I governi italiani a partire dagli ultimi vent’anni hanno cercato di arginare questa tendenza attaccando le tutele dei lavoratori e di conseguenza comprimendo i salari. Questa politica non ha sortito gli effetti desiderati; anzi la tendenza ad accumulare disavanzi commerciali non si è arrestata. Forse occorrerebbe cambiare indirizzo di politica economica restituendo centralità al settore pubblico e attribuendo ad esso un ruolo di orientamento e indirizzo degli investimenti privati in modo da stimolare la crescita dimensionale delle imprese e la produttività del lavoro.

Fonte:economycamente.altervista.org

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