di Gabriele Repaci,laureando in Filosofia all’Università degli Studi di Milano (Geopolitica)
Negli
ultimi mesi il dibattito politico nel nostro paese si è concentrato
principalmente sulla riforma del mercato del lavoro avanzata
dall’attuale governo, che vorrebbe eliminare l’articolo 18 dello Statuto
dei Lavoratori (il quale prevede il reintegro in caso di licenziamento
senza giusta causa). Il Presidente del Consiglio dei Ministri Mario
Monti ha affermato che l’articolo 18 scoraggerebbe gli investimenti e
che di conseguenza i giovani devono abituarsi all’idea di non avere un
posto fisso per tutta la vita. La tesi di fondo dell’attuale esecutivo è
che problemi come la disoccupazione e la mancanza di investimenti siano
causati da una rigidità del mercato del lavoro.
A ben vedere tale idea non è molto originale. Si tratta della
riproposizione della tesi della scuola neoclassica o marginalista
secondo la quale le imprese assumono nuovi lavoratori solo se la loro
produttività marginale è maggiore al costo marginale dell’assunzione
corrispondente al salario reale (ovvero il salario espresso in termini
di potere d’acquisto effettivo). In altri termini, se i lavoratori
accettano un salario conforme alla loro produttività sarebbero
certamente assunti. Secondo tale punto di vista la disoccupazione
dipende unicamente da una scelta individuale del lavoratore, il quale
magari si dichiara indisponibile ad accettare un salario conforme alla
sua produttività; oppure è imputabile all’azione dei sindacati, i quali
impediscono che i salari si adeguino al livello della produttività
marginale rendendo impossibile per le aziende ridurre i propri costi.
Ad esempio, nella Teoria della disoccupazione (1933)
l’economista neoclassico Arthur Cecil Pigou sostenne che la
disoccupazione di massa degli anni ’30 era dovuta al fatto che i
sindacati si opponevano al calo delle retribuzioni. Così facendo,
asseriva Pigou, essi impedivano il riequilibrio tra salari e
produttività marginale del lavoro che sarebbe stato necessario per
indurre le imprese ad assumere nuovi lavoratori. In tal senso, egli
arrivò addirittura a nobilitare la figura del crumiro, sostenendo che il
suo comportamento, fiaccando i sindacati e rendendo i salari flessibili
verso il basso, avrebbe prima o poi favorito il raggiungimento
dell’equilibrio di pieno impiego. Tale tesi fu già criticata a suo tempo
da Keynes il quale sostenne che «non è chiaramente sostenuta dai
fatti l’opinione secondo cui la disoccupazione che caratterizza uno
stato di depressione sia dovuta al rifiuto da parte dei lavoratori di
accettare una riduzione dei salari monetari. […] I lavoratori non sono affatto più esigenti nella depressione che nella prosperità, al contrario [...] Questi fatti dell’esperienza costituiscono un primo motivo per mettere in dubbio l’adeguatezza dell’analisi classica»¹.
La Grande Crisi confermò l’affermazione dell’esimio economista
britannico. Infatti, nonostante i salari a causa della crisi
continuassero a scendere, non veniva registrato nessun tipo di
miglioramento dal punto di vista occupazionale. In epoca più recente
l’OCSE ha pubblicato un rapporto² nel quale dichiara che non sembra
sussistere alcuna relazione empiricamente fondata tra livello di
flessibilità e volume totale dell’occupazione. Nel documento si può
leggere infatti che «l’impatto dell’EPL [Employment Protection Legislation, cioè l’indice di protezione dei lavoratori calcolato dall’OCSE Ndr] sulla disoccupazione aggregata è a priori ambiguo, e può essere individuato soltanto dall’indagine empirica» e che «i
numerosi studi empirici condotti su questo tema portano a risultati
contrastanti, e per di più la loro solidità è stata messa in dubbio»³.
Oltre a non avere sortito alcun effetto dal punto di vista
dell’occupazione, le riforme del mercato del lavoro degli ultimi 15
anni, portate avanti sia dai governi del centrodestra sia da quelli del
centrosinistra, hanno comportato un calo della produttività del lavoro
come dimostrato da uno studio condotto dal Fondo Monetario
Internazionale⁴. La motivazione è molto semplice. Se il lavoratore deve
pensare a come poter trovare un nuovo contratto di lavoro prima della
scadenza di quello vigente è poco motivato sul lavoro: non dispone di
tempo per la formazione, né l’impresa ha alcun interesse a fornirgliela e
soprattutto lascia l’impresa prima di poter acquisire quelle esperienze
dalle quali dipende la produttività del lavoro. Ci si potrebbe allora
chiedere, essendo stato ampiamente dimostrato che non esiste alcuna
correlazione fra aumento della flessibilità e crescita dell’occupazione e
che anzi questa flessibilità ha anche comportato un calo della
produttività, a cosa è servita la precarizzazione del lavoro compiuta
negli ultimi 15 anni. E soprattutto perché ci si ostina a proseguire su
questa strada?
Anche in questo caso la risposta è semplice. Infatti mentre non
esiste alcuna relazione tra aumento della flessibilità/precarietà e
quello dell’occupazione, è invece dimostrato che ad un aumento della
flessibilità faccia seguito una minor crescita dei salari in termini
reali. In Italia siamo di fronte a un capitalismo composto da piccole,
anzi piccolissime, imprese, caratterizzato da una bassa crescita della
produttività e da una perdita di competitività e da una conseguente
tendenza ad accumulare deficit con l’estero. I governi italiani a
partire dagli ultimi vent’anni hanno cercato di arginare questa tendenza
attaccando le tutele dei lavoratori e di conseguenza comprimendo i
salari. Questa politica non ha sortito gli effetti desiderati; anzi la
tendenza ad accumulare disavanzi commerciali non si è arrestata. Forse
occorrerebbe cambiare indirizzo di politica economica restituendo
centralità al settore pubblico e attribuendo ad esso un ruolo di
orientamento e indirizzo degli investimenti privati in modo da stimolare
la crescita dimensionale delle imprese e la produttività del lavoro.
Fonte:economycamente.altervista.org
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